sabato 17 agosto 2013

Firma per restituire Gorgona agli italiani ed impedire una bomba in mezzo al mare



Da qualche mese, insieme all'organizzazione internazionale Avaaz, sono partite due nuove ed importanti petizioni. Spero vorrete  firmarle convidendole con i vostri amici e conoscenti.
La prima si chiama: "Chiudiamo il carcere dell'Isola di Gorgona". La seconda: "No al rigassificatore nel mare del Santuario dei Cetacei".
Forse non tutti sanno che in Italia esiste un'isola chiamata Gorgona, a sole 19 miglia da Livorno, dove coesistono una colonia penale ed un paese che sta scomparendo.
Chiudere questa dispendiosissima prigione a cielo aperto è diventata per gli ultimi abitanti ormai una priorità. O il carcere o i gorgonesi è ormai la scelta da fare. 
La secolare convivenza è ormai carta straccia grazie all'attuale direttrice del carcere Maria Grazia Giampiccolo che, abusando dell'autorità che gli concede il ministero di Giustizia, è arrivata addirittura ad impedire lo sbarco ad alcuni gorgonesi che abitano stabilmente sull'isola. 
Questo, insieme ad altre mille prevaricazioni ed ingiustizie della colonia penale sul paese, significa la morte di Gorgona e dei suoi abitanti originari, per farne un'altra isola desertificata come Pianosa e l'Asinara.

Intanto sta arrivando a Livorno, non lontano dall'isola di Gorgona, un enorme rigassificatore che vogliono piazzare in mezzo al mare, proprio all'interno del Santuario dei Cetacei e del Parco dell'Arcipelago Toscano. Questa iniziativa va fermata a tutti i costi perché darebbe un colpo mortale all'ambiente e alla bellezza di questi posti, oltre ad essere un pericolo per eventuali esplosioni o l'utilizzo di sostanze chimiche.


Per firmare clicca qui sotto:

http://www.avaaz.org/it/petition/Chiudiamo_il_carcere_dellIsola_di_Gorgona/?launch

http://www.avaaz.org/it/petition/No_al_rigassificatore_nel_mare_del_Santuario_dei_Cetacei/?launch




Capitolo I
Aspetti storici

1 La nozione di colonia penale

Dovendo affrontare il problema della colonizzazione penale nel sistema penitenziario, è necessario innanzi tutto individuare il significato etimologico della parola "colonia", e le varie accezioni che essa ha assunto nel corso dei secoli. Il termine in questione, derivato dall'antico vocabolo latino "colonus", ovvero colui che coltiva il campo proprio o l'altrui (contadino) (fine secolo XIV, S. Agostino) (1), nell'età antica indicava un nucleo di popolazione civile trasferita dalla madrepatria in un altro territorio, in genere scarsamente abitato, per la creazione di un insediamento stabile. Tali furono le colonie greche e romane. Nell'età moderna la parola ha indicato un paese geograficamente lontano su cui uno Stato stabilisce militarmente la sua sovranità con l'intento di sfruttarne le risorse a suo vantaggio. Un'altra accezione, non lontana dalle precedenti indicate per affinità di riferimenti e significati, è quella relativa alla colonia penale che, in modo sintetico, possiamo definire stabilimento penitenziario lontano dalla madrepatria, destinato un tempo ai condannati a lunghe pene detentive.
Secondo la definizione del "Digesto" (2) le colonie penali possono essere di due specie: di oltre mare e interne, le prime in territori conquistati in luoghi lontani dalla madrepatria, le seconde all'interno dei confini naturali. Esse hanno in comune la necessità di dissodare e bonificare luoghi incolti e insalubri sia nei confini naturali sia oltre mediante l'opera di condannati, ma differiscono in quanto nelle colonie penali interne "i condannati sono sempre detenuti in un penitenziario", mentre nelle altre essi generalmente non hanno "altra limitazione della libertà personale fuori di quella della dimora obbligatoria e di una certa disciplina, e vivono del proprio lavoro" (3). A ciò si deve aggiungere che le colonie penali interne sono di istituzione più recente rispetto alle altre, quindi "rappresentano l'ultimo perfezionamento del sistema penitenziario moderno, in quanto che consistono in una maniera di esecuzione della pena principalmente indirizzata all'emenda del colpevole".
I diversi significati che la parola colonia assume sono riconducibili al verbo "colere" che in latino significa "coltivare", "curare" ma anche "trattare con rispetto", "rispettare un superiore". Carlos Petit (4) da queste indicazioni etimologiche evince alcune indicazioni importanti che danno al termine "colonia" significati precisi e caratterizzanti, come per esempio la nozione di protezione e educazione, il rapporto con la natura, il lavoro come forma di rieducazione e infine il riferimento alla famiglia e in particolare alla figura "paterna" del direttore (5). A questo proposito Franca Mele, ricostruendo la fondazione della colonia penale di Pianosa (6), afferma che essa era destinata ad accogliere, secondo il progetto (1858) di Carlo Peri (7), Soprintendente Generale per gli stabilimenti penali, giovani corrigendi da impiegare nella coltivazione dei campi, nell'allevamento del bestiame e nella costruzione di un fabbricato destinato ad accoglierli, con l'obiettivo di rieducare ragazzi che
"hanno seguito il cattivo esempio dei genitori o per i quali i genitori hanno trovato un modo legale per esimersi dal loro mantenimento; anche se nei loro confronti si rende necessario un intervento correzionale, costituiscono comunque la classe di detenuti meno pericolosa per la società e su di essa la prigione ha effetti tutt'altro che correttivi, avviandoli anzi alla delinquenza abituale". (8)
A ulteriore conferma di quanto sopra, Santoriello in "L'isola di Pianosa e la nascita delle colonie agricole penali nell'Italia liberale" (1860-1889), (9) mette in evidenza "l'ampia discrezionalità" del direttore riguardante non solo la costruzione degli edifici ma anche l'attivazione di nuove coltivazioni e l'organizzazione stessa della giornata dei condannati che era disciplinata secondo regole prestabilite, che riguardavano persino l'alimentazione e il compenso in base alle categorie lavorative (10). Dunque un potere ampio del direttore che paternamente si occupa dei condannati, istituendo regole ma anche provvedendo a creare situazioni favorevoli di tutela e di lavoro che potevano preparare i condannati al reinserimento nella società civile.
La colonia penale, pertanto, persegue finalità rieducative e socializzanti, almeno nel progetto dei riformatori della prima metà dell'Ottocento in particolare nel Granducato di Toscana, e ha lo scopo di trovare soluzioni alternative a condizioni sempre più critiche dei detenuti per problemi di sovraffollamento e di strutture edilizie inadeguate. Secondo Guido Neppi Modona, tuttavia, tali finalità sono state proclamate ma mai raggiunte, basti pensare
"alle condizioni di vita cui erano costretti i condannati e, con loro, le guardie carcerarie: nelle colonie, collocate appunto in terreni incolti e malarici [...] la malaria e le disastrose condizioni igieniche mietevano vittime in altissima percentuale, con picchi di mortalità dall'8 al 10% e di infermità dal 30 al 40%, secondo quanto dichiarato dallo stesso direttore generale delle carceri Beltrani Scalia in una relazione del 1891" (11).
I dati confermano drammaticamente gli aspetti problematici del modello delle colonie penali, tuttavia non bisogna dimenticare che, rispetto al regime penitenziario, le pur incivili condizioni in queste ultime risultavano assai meno gravi tanto che vi venivano trasferiti condannati meritevoli di premio (12).
Per quanto riguarda la situazione degli altri Stati europei, è molto difficile fare una trattazione del tema della "colonizzazione penale", comparata alla situazione italiana, in quanto fenomeni di specie ebbero dei presupposti e degli sviluppi totalmente diversi rispetto a quelli appena trattati. Se infatti è comune a quasi la totalità dei Paesi europei dell'Ottocento la spinta ad una ricerca di nuove forme di pena detentiva (13), ogni Paese si è dotato di una propria specialità, in particolare, una differenza eclatante deriva dal fatto che l'Italia non avesse (o avesse in modo molto limitato) dei possedimenti d'oltremare ove sperimentare la colonizzazione penale, mentre nazioni, come la Francia e il Regno Unito, poterono almeno cercare di effettuare una colonizzazione dei "nuovi mondi" con l'invio dei condannati.
In particolare la Francia si mosse fondamentalmente lungo le due direttrici delle colonie agricole per minorenni e la colonizzazione penale dei territori lontani dalla madre patria (14), in seguito alla nascita, alla fine del XVIII e inizi del XIX secolo, di correnti riformatrici, ispirate soprattutto dagli scritti di illuminati filantropi del tempo, quali Cesare Beccaria, Montesquieu, Voltaire e altri (15), i quali, una volta affermata l'inutilità della pena arbitraria e dei supplizi - in particolar modo della pena di morte (16)- propongono l'idea dell'imprigionamento come pena principale da applicare. All'inizio del XIX secolo anche in Francia viene proposto un modello di pena del tipo "dell'isolamento cellulare puro", ma ciò ben presto si rivelerà un modello fallimentare, a causa soprattutto dei costi eccessivi che questa tipologia portava, e dunque si fece largo l'idea di utilizzare la colonizzazione penale, in particolar modo nella Guyana (17). Luigi Napoleone considerava la pena dei lavori forzati nei territori d'oltre mare "più moralizzatrice, meno dispendiosa e più umana" (18). In realtà, questa deportazione nel continente americano, si rilevò quasi da subito un progetto fallimentare, e la causa prima riguardò essenzialmente le pessime situazioni sanitarie ed ambientali che i condannati trovarono in Guyana, che portarono a dei tassi di mortalità altissimi sia per i reclusi che per le guardie. Tutto ciò fece sì che l'entusiasmo per questo nuovo strumento per combattere la criminalità, quale la deportazione, andasse ben presto diminuendo, e questo portò alla definitiva fine della pena ai lavori forzati prima dell'inizio del secondo conflitto mondiale (19).
Un diverso aspetto della colonizzazione è rappresentato dalle colonie agricole destinate ai giovani delinquenti. Tali istituti furono adottati prevalentemente in Francia e in Belgio (20), e alla base stava la concezione che veniva attribuita alla terra, in aperta contrapposizione e critica all'industria, perché veniva sottolineato il carattere nel contempo coercitivo e educativo proprio del lavoro agricolo (21). Tali colonie inizialmente erano per lo più gestite da privati, in particolare era il mondo cattolico ad occuparsene. Ciò fece sì che si creassero aspre polemiche che, come riporta Eric Pierre, vertevano sul fatto che spesso questi direttori degli istituti privati "pensavano troppo al successo finanziario delle loro imprese e non abbastanza all'educazione dei giovani" (22).

2 Le colonie penali agricole in Toscana nella prima metà dell'Ottocento: l'utopia della riforma

Nella prima metà dell'Ottocento si aprì in Italia e in Europa un intenso dibattito sui sistemi penitenziari, con successive istanze riformatrici che si manifestarono in particolare in Piemonte e in Toscana. La discussione verteva in particolare su due modelli americani (23): Philadelphia e Auburn (24): il primo influenzò soprattutto la conduzione degli istituti del Granducato di Toscana, al secondo fecero riferimento in particolare i riformatori piemontesi (25).
Per quanto riguarda la Toscana (26), all'inizio dell'Ottocento i lavori forzati costituivano la modalità principale di esecuzione delle pene, per lo più in bagni penali (27), mentre la carcerazione era limitata a periodi molto brevi (28). In particolare il Codice Criminale della Toscana del 1786 si era molto ispirato ad alcune fondamentali idee - guida del pensiero illuminista, quali l'abolizione della pena di morte e delle mutilazioni corporali. Nel contempo, però, si fece ricorso sempre più alla pena dei lavori forzati, soprattutto nei bagni penali di Livorno, Pisa e dell'isola d'Elba. Inoltre venne aperta nel 1816 una "casa di forza" a Volterra, e molte delle carceri toscane furono attrezzate per il lavoro dei detenuti (soppressione per sovrana risoluzione del 15 agosto 1835 del carcere fiorentino delle Stinche, apertura nel 1836 di una casa di correzione nell'ex convento delle Murate; apertura nel 1833 di una casa di pena femminile a S. Gimignano) (29). Anna Capelli (30) descrive la vita dei detenuti nei bagni e precisa che era caratterizzata dal fatto che il condannato passava la notte rinchiuso, mentre il giorno rimaneva a contatto con gli operai liberi e lavorava per opere di pubblica utilità; proprio in ciò stava la componente deterrente, in quanto, oltre alla fatica propria del lavoro, il forzato subiva "la berlina" di dover stare pubblicamente "con la catena, la divisa, la scritta appesa al collo indicante il crimine, la coccarda di colore diverso a seconda del reato" (31). Questo modello non era però più adatto alla mutata realtà ottocentesca. Se era servito da tramite da una concezione di "eliminazione fisica" tipica della pena capitale, ad una concezione detentiva della pena, tuttavia, non serve alla rieducazione del condannato e soprattutto non rispettata il principio della "less eligibility" (32), cioè il far sì che il tenore di vita in carcere fosse comunque peggiore di quello già bassissimo che i delinquenti avevano in libertà (33). Dato che nella prima metà dell'Ottocento le cause del crimine vengono sempre più spesso ricercate nell'ambiente sociale che l'individuo frequenta (34), viene scartata, in favore della segregazione assoluta, la deportazione che crea il distacco solo dalla società di appartenenza.
La scelta del sistema isolazionista guidò la politica di riforme della Toscana fin dai primi anni Quaranta, inserendosi in una tradizione, che affondava le proprie radici nel Settecento (abolizione della pena capitale) (35). In realtà, come osserva Capelli (36), "l'applicazione su vasta scala di un metodo d'internamento severo come l'isolamento assoluto poteva [...] essere utilizzata per sancire il superamento di forme di pena inadeguate e per rafforzare al tempo stesso il ruolo della detenzione, e di conseguenza delle strutture carcerarie, all'interno del sistema espiativo". Tutto ciò va interpretato come la volontà di modernizzare il sistema, allo stesso modo nel Settecento la riforma Leopoldina "normalizzando" il lavoro forzato aveva potuto "controbilanciare" l'abolizione della pena di morte, con una misura altrettanto repressiva e deterrente.
In questo contesto si inserisce la proposta di Carlo Peri di istituire la colonia penale agricola di Pianosa (37), con lo scopo di trovare un'alternativa di pena per i giovani corrigendi, destinandoli al lavoro sull'isola, con il non secondario fine di deflazionare gli stabilimenti cellulari (38) in modo che l'opzione "philadelphiana", adottata dal Codice Penale del 1853, potesse essere pienamente realizzata in una concreta struttura penitenziaria (39). Le finalità che inizialmente avevano guidato Peri nella definizione del progetto, furono in parte successivamente modificate estendendo l'invio nell'isola degli adulti come premio di buona condotta (40). Peri pensava che la colonia doveva assolvere la funzione di "istituzione intermedia" (41) che intercorreva tra il passato stato di detenzione e il futuro stato di libertà.
L'isolamento cellulare era visto dagli studiosi, in particolare da Peri (42), non come una componente crudele e afflittiva nei confronti dei detenuti, ma quasi protettiva, con l'attuazione di quel sistema definito della "buona compagnia", per cui i reclusi sarebbero stati tutelati dalla loro reciproca "scuola del male", ed avrebbero incontrato solo persone rette quali volontari ed ecclesiastici, e a tal fine nel 1846 fu fondata una società caritatevole di patrocinio (43).
Dal punto di vista pratico, esaminando i risultati concreti di questa "svolta philadelphiana", i problemi non mancarono, e ciò dette luogo ad aspre polemiche ed accesi dibattiti; in particolare interessantissime sono le inchieste di un medico, Carlo Morelli, che nel 1859 esaminò le condizioni dei detenuti ospiti nella casa di Volterra (44). Egli denunciava condizioni di vita pessime, soprattutto a livello sanitario, che portavano ad un deperimento sia fisico sia, in particolar modo, mentale (45). Il paradosso era che, se queste disastrose conseguenze derivavano dal modello dell'isolamento cellulare, in realtà esso non era applicato in modo corretto, perché a causa dei problemi di architettura carceraria (sovraffollamento, vicinanza delle celle etc.) era impossibile attuare l'utopia di partenza della "buona compagnia" (46), alla luce anche del fatto che le previste visite ai reclusi da parte dei patroni erano molto rare. Egli concludeva che la cosa migliore da fare sarebbe stata quella di adottare un sistema cosiddetto misto, facendo seguire all'isolamento delle fasi di stampo "auburniano" (47).
Questa "riforma della riforma" (48), smentiva sicuramente, almeno in parte, i propositi della riforma voluti da Peri, anche se, probabilmente, ciò permise che il suo progetto nell'isola di Pianosa si sviluppasse maggiormente ed avesse una evoluzione che inizialmente nessuno aveva previsto.
Sostanzialmente dall'unità fino al codice Zanardelli, in Italia si scontrano due diverse scuole di pensiero per quanto riguarda il tema delle colonie penali agricole. La discussione non verte tanto tra coloro che sono favorevoli all'istituto in sé e coloro che invece sono contrari (anche se non mancano voci in tal senso) (49), quanto piuttosto riguardo alla funzione che esse dovrebbero avere nell'ambito del sistema penitenziario italiano. Già nella commissione nominata con decreto del Ministro dell'Interno del 16 febbraio 1862, da una parte viene proposto che l'invio nella colonia costituisca uno stadio intermedio tra quello della segregazione e quello della liberazione condizionale, dall'altro però viene respinta l'ipotesi di inserire le colonie nella scala penale, perché questo, a detta di alcuni, rappresenterebbe una inammissibile mitigazione che indebolirebbe la portata intimidatrice e repressiva della pena, in quanto l'invio nella colonia sarebbe a quel punto considerato un diritto e non un premio per la buona condotta. Fondamentalmente alcuni studiosi quali Peri, e anche il Guardasigilli Vigliani oppure l'ispettore generale delle carceri del Regno Beltrani Scalia (50) hanno una concezione di colonia penale intesa come strumento necessario di passaggio dal carcere alla società libera; quindi, anche se il loro regime detentivo è più mite rispetto ai tradizionali istituti di pena, ciò non toglie alla pena la funzione intimidatrice, in quanto l'invio nelle colonie viene fatto solo al termine di un periodo detentivo e sempre condizionato alla buona condotta. Per contro, altri studiosi, ad esempio i professori Brusa, De Foresta e Cerruti, avevano un'idea di colonia penale intesa come deportazione di una parte di criminali in terre lontane o anche nelle isole, allo scopo di allontanare le persone più miserabili dal consorzio civile. In questo caso le colonie agricole non erano viste come istituti penali giuridicamente organizzati e amministrati dallo Stato, ma solo quali luoghi geografici di deportazione, dove non era presente l'obiettivo della "rigenerazione morale dei detenuti", ma si perseguiva solo lo scopo di difendere la società allontanando quanto più possibile i criminali (51).
Molto interessante a proposito fu la testimonianza di un insegnante elementare con alle spalle esperienze di insegnamento ai detenuti, il quale ricevette nel 1863 l'incarico di fondare delle scuole per i coloni, nelle isole toscane; ciò permise allo studioso di visitarle, e di rendersi conto che, a suo giudizio, esse erano perfette per ospitarvi luoghi di pena (52), in particolare gli istituti delle colonie agricole (53).
A seguito dell'esperimento di "Pianosa" nel 1869 venne istituita anche nell'isola di Gorgona una colonia penale agricola, come succursale della medesima, ottenendo dopo pochi anni l'autonomia amministrativa (1871); nel 1873 anche Capraia divenne sede di una colonia penale. È interessante quanto ebbe a scrivere il primo direttore di Gorgona, Angelo Biagio Biamonti, il quale in una lettera indirizzata al Commendator Felice Cardon (direttore generale delle carceri) sostenne che:
"Finalmente nel 1869, considerando il Governo che dai progressi dell'Agricoltura deriva in gran parte la prosperità delle Nazioni, che dai lavori Agricolipotevansi ritrarre proventi ben più ragguardevoli di quelli che offrono gli altri Stabilimenti Penali, e che in una Colonia, a preferenza d'ogni altro luogo,sarebbesi con maggior facilità potuto ottenere il rigeneramento morale del condannato, e che infine le spese per la fondazione d'una Colonia in quell'Isola [Gorgona] avrebbero potuto ascendere alla metà meno di quelle che sarebbero occorse per altro Stabilimento Penale, dacché esistevano tuttora nell'Isola antichi fabbricati, da adattarsi con poca spesa all'uopo" (54).
Anche per quanto riguarda l'esperienza di Gorgona, i primi commenti furono estremamente positivi; una significativa testimonianza ci è fornita da Volpini, un professore di un istituto tecnico, che in una lettera ad un suo collega di un liceo (cav. Ottaviano Targioni Tozzetti), avendo visitato l'isola, nel descrivere le attività produttive presenti all'interno della colonia, scrisse che nell'isola:
"vi è una concia di pelli, la quale basta per il consumo dei 310 detenuti e presto aprirà una via anche all'esportazione; si fabbrica il sapone, che supplisce ai non piccoli bisogni della Colonia; quivi si fabbricano cappelli di paglia ed anche di lana tosata da un gregge che pascola sopra quei colli; e cappelli pure di pelo di coniglio, che vive e si riproduce in abbondanza in una ben intesa conigliera. Fu utilizzata una pietra atta a far buona calcina, come pure una terra per far mattoni ed altri oggetti laterizi, le quali cose ognun conosce quanto vantaggio arrechino a stabilimenti di questo genere. Tutto insomma che può abbisognare agli abitanti della Colonia, ivi si fabbrica, si perfeziona ancora, e se ne ritrae utilità e comodo incalcolabile. La macellazione del bestiame, la pollicultura, l'allevamento dei bovi, delle pecore, delle capre, e degli animali suini rendono la Colonia quasi indipendente da ogni altro luogo per le sue industrie e prodotti, e la fanno, e tanto più la faranno in un prossimo avvenire ricca, bella in tutto e feconda" (55).
Come possiamo dedurre dai vari giudizi espressi circa la validità o meno del progetto di realizzazione delle colonie penali agricole, il dibattito era concentrato sia sull'aspetto economico sia su quello funzionale e organizzativo. Riguardo alla questione economica, nel dibattito svoltosi alla fine del XIX secolo, molto interessante è la posizione espressa nel 1902 da Carfora nel "Digesto", in quanto egli precisa che le colonie penali agricole non possono costituire una soluzione economicamente valida al problema dei costi sopportati dall'erario per il mantenimento degli Istituti di pena, infatti permangono problemi relativi alla sorveglianza (da cui non si può prescindere), e alla organizzazione del lavoro, sulla cui produttività non possiamo parlare di utili.
Carfora parte da una prima constatazione, supponendo che
"se le colonie penali potessero sorgere per generazione spontanea, come conseguenza della deportazione applicata coll'abbandono dei condannati sopra isole deserte, dove questi, provveduti nel momento stesso dell'abbandono dei soli mezzi indispensabili per procacciarsi la vita, sarebbero lasciati a se stessi senza sorveglianza e senza aiuti ulteriori (...), allora è evidente che esse, salvo le spese di traduzione dei deportati e di prima provvisione, verrebbero a costar quasi nulla allo Stato, e sarebbero per conseguenza causa di notevole economia; ma non è chi non veda come queste Colonie penali, tranne quella di liberare lo Stato dai condannati, non avrebbero utilità di sorta sotto il rapporto dell'emenda, che è quello che giustifica principalmente gli istituti di simil genere" (56).
Egli continua però dicendo che
"sarebbe sempre pericoloso il lasciar senza sorveglianza una moltitudine di condannati, i quali diventerebbero gli uni agli altri lupi e finirebbero per divorarsi a vicenda, quando si pensi che il mondo dei delinquenti è per se stesso turbolento e attaccabriga, ed anche nei luoghi ordinari di pena, dove viene esercitata una vigilanza continua e rigorosa, se ne vedono gli effetti spesso disastrosi, i quali incombe allo Stato l'obbligo di evitare, perché il delinquente, per quanto meritevole di pena, per la quale a lui sia reso in sofferenza il male commesso col delitto e la società sia garentita da nuovi attentati, non è mai da considerarsi come una belva, della quale basta liberarsi in qualsiasi modo e senza nessun riguardo alla impronta della umanità, che resta incancellabile anche negli esseri i più protervi".
L'autore ribadisce la necessità di un'attenta sorveglianza nelle colonie. Assunto quindi che per forza di cose, le colonie penali, al pari di qualunque altro istituto di pena, hanno un costo che grava sull'erario dello Stato, esiste una peculiarità tipica di questi istituti, che riguarda il lavoro. Tale questione deve essere affrontata secondo Carfora, sotto un duplice aspetto: 1) la difficoltà di rendere avvezzi al lavoro individui che per la loro indole sono ad esso ribelli, in quanto hanno sempre vissuto nell'ozio e grazie ai proventi dei loro misfatti; 2) le caratteristiche intrinseche del lavoro coatto che è di per sé meno produttivo del lavoro libero (57).
Altra cosa fondamentale da considerare, sempre secondo Carfora, è che, anche nel caso in cui venga superato il problema derivante dalla minore produttività del lavoro carcerario, e dunque supponendo che esso produca un guadagno, gli eventuali utili devono essere diretti ai condannati come giusta retribuzione delle loro fatiche, altrimenti il lavoro acquisterebbe come unica connotazione quella afflittiva, tipica dei lavori forzati, ma, come detto, questo non appartiene all'originario spirito delle colonie. Possiamo concludere che gli sperati vantaggi economici che le colonie avrebbero dovuto portare, in realtà sono del tutto inesistenti; anzi è configurabile addirittura un non remoto rischio per l'intera economia nazionale, in quanto le colonie avrebbero potuto fare una concorrenza sleale al libero mercato del lavoro, grazie al basso costo della manodopera ivi presente. L'unica soluzione, sotto questo aspetto, fu sfruttare il lavoro dei condannati per compiere quelle opere che i liberi cittadini non volevano fare, come la bonifica di zone malariche o alcune attività pericolose legate a certe industrie, così da trarre vantaggio per l'intera nazione (58). Carfora aggiunge un altro aspetto molto significativo che concerne il problema dell'emigrazione, fenomeno di grande rilevanza sociale, assai diffuso negli ultimi anni del XIX secolo, che determinò quella mancanza di manodopera alla quale le colonie penali potevano in gran parte supplire (59).
In conclusione è difficile dire se le colonie penali, così come strutturate nel corso dell'Ottocento, fossero o meno vantaggiose dal punto di vista economico, dipendendo il tutto, come abbiamo potuto vedere, da un numero elevato di fattori e di variabili. Probabilmente l'utilità delle colonie per lo Stato avrebbe dovuto essere inquadrata non solo sotto il profilo economico e finanziario, ma anche e soprattutto in relazione al vantaggio che potevano avere sulla rieducazione morale e sociale del condannato rispetto agli istituti di pena ordinari, in quanto solo in esse il condannato poteva trovare motivazione al reinserimento nella società civile come rinato lavoratore e non più come delinquente dedito al delitto e all'ozio. Da questo punto di vista, in linea di principio, potevano esserci dei risvolti positivi per lo Stato e per la collettività anche a livello economico.
1895-1896Utile industrialePerdita industrialeRagguaglio per ogni giornata di lavoro
Asinara11.261,9900,234
Bitti11.183,8400,712
Cagliari (S. Bartolomeo)17.016,0100,257
Capraia7.364,0900,157
Castiadas0,0028.880,110
Gorgona0,006.193,860
Isili0,007.348,190
Maddalena896,560,000,164
Pianosa24.075,890,000,264
Pozzuoli0,005,300
1896-1897Utile industrialePerdita industrialeRagguaglio per ogni giornata di lavoro
Asinara12.445,1000,277
Bitti2.025,2900,178
Cagliari (S. Bartolomeo)22.662,8300,048
Capraia0,002.850,580
Castiadas5.198,6200,042
Gorgona0,005.103,190
Isili0,001.485,540
Maddalena321,850,000,104
Pianosa32.965,820,000,289
Tremiti6.364,050,000,507
Le tabelle riportate riguardano gli utili/perdite delle colonie penali agricole per l'esercizio finanziario 1895-1896 e 1896-1897 (60). Come si evince dai dati raccolti, per il primo biennio preso in esame, gli stabilimenti di pena intermedi diedero un utile industriale netto di 28.369,92 Lire, ma lo Stato dovette spendere ben 245.494,26 Lire per il solo mantenimento dei detenuti. Tali dati rimasero pressoché costanti nel biennio di esercizio successivo, benché l'utile industriale netto salì sensibilmente a 72.554,25 Lire e la spesa si attestò a 226.037,20 Lire.

3 Condizioni di vita e di lavoro

Dovendo affrontare il tema delle condizioni di vita e di lavoro all'interno delle colonie penali, dobbiamo innanzi tutto evidenziare che l'attività prevalente era quella agricola, pertanto l'organizzazione dell'istituto era funzionale ad essa. Prendiamo ad esempio il regolamento delle colonie del 1887 (61), esso disciplinava in modo minuzioso gli orari che i condannati dovevano rispettare, prevedendo che la sveglia suonasse dal primo settembre al quindici aprile "mezz'ora prima del levar del sole", mentre "dal sedici aprile a tutto agosto col levar del sole" (62). Il regolamento continuava prevedendo che "mezz'ora dopo la sveglia i condannati saranno destinati alle varie occupazioni loro assegnate e vi attenderanno senza interruzione fino all'ora della prima refezione, da farsi in generale due ore dopo, e per la quale è concesso un quarto d'ora, riprendendo quindi il lavoro fino all'ora del rancio o della prima distribuzione del vitto (...)" (63). Sempre per sottolineare come le regole di vita erano tutte finalizzate al buon andamento dei lavori, si può ricordare l'art. 47 in cui si prevedeva che per il vitto e il riposo pomeridiano fosse concessa una pausa di un'ora e mezzo, al termine della quale i condannati dovevano far ritorno al luogo di lavoro, senza possibilità di ulteriori interruzioni (64) fino a mezz'ora prima del tramonto. Eventuali deroghe per l'interruzione del lavoro potevano essere concesse solamente nel caso in cui il luogo di lavoro fosse molto distante rispetto ai dormitori, per cui in tal caso il termine del lavoro poteva essere anticipato in modo che i condannati potessero far ritorno nei loro ricoveri sempre entro il tramonto (65). Una volta rientrati nei vari stabilimenti della colonia loro assegnati, ai detenuti veniva distribuito il vitto, che dovevano consumare in un lasso di tempo di mezz'ora, trascorsa la quale, adempiuta ogni visita e ogni altra formalità, i condannati potevano riposarsi (66). Visto che la maggioranza dei lavori all'interno della colonia erano all'aperto, era prevista una speciale organizzazione per i giorni in cui, a causa delle intemperie, i normali lavori nei campi non potessero essere svolti (67). In questi casi, così come nei giorni festivi, la sveglia per i condannati era posticipata di mezz'ora, e veniva concessa un'ora e mezzo di tempo da dedicare alla pulizia personale e dei locali. Nella restante parte della mattinata i condannati assistevano alla messa "e alla spiegazione del Vangelo", ed erano impegnati in attività scolastiche e di educazione in genere. Dopo il pasto giornaliero e il riposo, i condannati assistevano al "catechismo ed alla benedizione", e fino al tramonto era concesso loro "il passeggio" oppure del tempo per curare la propria corrispondenza (68). Come si può osservare i ritmi di vita sono prettamente agricoli, con il primo vitto somministrato di regola a mezzogiorno e quello serale al tramonto (69).
Nel precedente capitolo abbiamo evidenziato che il lavoro era obbligatorio per tutti i condannati che non avessero particolari problemi di salute (art. 56), ma vi erano delle differenze tra le varie colonie penali riguardo alle tipologie di lavoro e di conseguenza alle condizioni di vita dei detenuti. Sicuramente l'esempio più importante, sia perché fu la prima colonia agricola in Italia, sia perché in essa si ebbero i migliori risultati produttivi e soprattutto organizzativi, è dato dallo stabilimento di Pianosa. Per capire al meglio come si svolgeva la vita all'interno del penitenziario, è opportuno soffermarsi brevemente sulle vicende storiche dell'isola (70). Essa, infatti, a differenza delle altre isole toscane (eccetto Giannutri e Montecristo), è sempre stata disabitata, se si esclude il breve periodo di dominazione romana (71), e il XV secolo, quando l'isola conobbe un certo periodo di floridezza, periodo che cessò definitivamente quando nel 1554 l'isola venne saccheggiata e distrutta dal pirata Dragut (72). Da questo momento in poi Pianosa non conobbe più una popolazione stabile, ma venne sfruttata in modo saltuario soprattutto dagli elbani che vi si recavano per coltivare la terra e portarvi il bestiame (73). Foresi riporta una testimonianza molto interessante che attesta come l'isola fosse meta di pescatori, i quali dimoravano dentro piccole caverne naturali (74). Questa premessa risulta importante, in quanto ci fa capire come nel momento in cui venne istituita nel 1858 la colonia, l'isola fosse praticamente disabitata (75), evitando possibili problemi di convivenza con popolazione libera (76).
Anzitutto bisogna precisare che, come in tutte le colonie agricole, anche a Pianosa, si procedette alla divisione del territorio "in poderi" e a mano a mano che venivano compiuti i lavori di dissodamento e di bonifica dei terreni, "venivano costituite delle diramazioni lontane dalla casa centrale dove venivano stabiliti altri detenuti" (77). In sostanza le varie diramazioni della colonia, si possono considerare dei distaccamenti funzionali dotati di una certa autonomia, tanto da essere considerati un "carcere nel carcere". Come riporta Carfora (80), i dieci poderi di cui era composta Pianosa, erano ciascuno dotati degli "occorrenti fabbricati per abitazione di uomini, ricovero di animali e riparo di istrumenti e prodotti rurali". Inoltre lo studioso evidenzia che "la ripartizione della popolazione detenuta non è fatta naturalmente in maniera uniforme, ma varia dalle centinaia alle poche decine, a seconda della estensione dei poderi, della qualità delle colture e della loro ubicazione".
Altra interessante novità fu che in quasi tutte le colonie agricole erano presenti un determinato numero di detenuti denominati "sconsegnati", contraddistinti dalla iniziale "S", i quali avevano la possibilità di lavorare, principalmente come pastori, carbonai, agricoltori etc., senza immediata vigilanza da parte del personale di custodia, spesso in poderi periferici della colonia stessa (81). Ovviamente la sorveglianza era solamente ridotta rispetto agli altri detenuti comuni, e non totalmente assente (82).
Come si evince dalla tabella riportata il fabbricato denominato "casa centrale" (83) è quello che può ospitare il maggior numero di detenuti, e che Saporito (84) descrive come "un fabbricato imponente, a due piani, con un corpo mediano e due ali laterali"; mentre a proposito delle altre diramazioni, egli aggiunge che "i lavoratori, che attendono a siffatte aziende, hanno quasi tutti dimora fissa nei rispettivi fabbricati, nei quali ogni nota carceraria cede il posto alle necessità lavorative, ed alla semplicità propria della vite agreste; onde dall'insieme risulta il carattere di un vero villaggio agricolo". Dworzak (85) aggiunge che tale suddivisione in diramazioni è utile ed importante per favorire il trattamento individuale dei condannati, e che tale tipo di organizzazione "ha il vantaggio di permettere lo sviluppo dell'azienda su vasta scala, evitando nel contempo un soverchio ammassamento di carcerati". Lo studioso precisa però che secondo lui "anche una colonia agricola non può estendersi smisuratamente perché l'indirizzo generale da dare al lavoro nella colonia, l'amministrazione ecc. incombono sempre alla persona del direttore".
L'organizzazione del lavoro a Pianosa era impostato secondo schemi semplici ma razionali, tali che la colonia godeva di una sostanziale indipendenza dal punto di vista della produzione dei beni e dei servizi indispensabili di cui aveva bisogno (generi alimentari, manodopera edile etc.). Tale forma di autarchia era resa possibile dal fatto che ogni detenuto svolgeva all'interno dell'istituto un certo lavoro, scelto da lui secondo le sue capacità ed attitudini, ovviamente tenendo presente le effettive necessità di manodopera della colonia. Fin da subito la produzione agricola di Pianosa si specializzò nella coltura della vite e nella conseguente produzione di vino (86), che Saporito definisce di "ottima qualità" oltre che "premiato in numerose esposizioni" (87). Oltre a ciò era presente la coltivazione di numerosi alberi da frutto, in particolare mandorli e peri, discreta era anche la produzione di ortaggi, cereali e le "culture foraggere e da pascolo" (88), raggiungendo buoni livelli di qualità nella produzione del grano.
Come abbiamo visto all'inizio di questo capitolo, il regolamento prevedeva che la vita dei detenuti si svolgesse per la maggior parte della giornata all'aria aperta, essendo occupati nei vari lavori della colonia. Questo rappresenta sicuramente la caratteristica più importante che differenzia le colonie dagli istituti tradizionali, dove, al contrario, i detenuti passavano la maggior parte del loro tempo chiusi nell'istituto, nell'ozio della loro cella oppure svolgendo limitati lavori interni. Da questo punto di vista, le colonie erano nettamente da preferire, in modo particolare per quei detenuti che dovevano scontare una pena molto lunga. A riprova di ciò, un interessante indice della preferenza dei detenuti per le colonie, può essere desunto dal numero estremamente basso di castighi inflitti, dimostrando una scarsa conflittualità rispetto alle altre carceri (89). Anche le condizioni di vita nella colonia erano buone, con un tasso di mortalità nel biennio 1866-67 del 1,4%, a fronte del 26% dei condannati all'ergastolo nel carcere di Torino; dati positivi vennero riscontrati in generale anche per lo stato di salute dei condannati, in quanto nel 1876 le giornate di cura concesse agli stessi erano molto al di sotto della media in confronto agli altri stabilimenti penali (a Capraia, su 180 presenti, si registravano ricoveri per un totale di 580 giornate, a Gorgona su 330 detenuti le giornate di cura furono 2256, e la media nazionale era di circa 7000 giornate) (90). Per quanto riguarda più dettagliatamente la disciplina, nel 1896 i delitti compiuti in tutti gli stabilimenti penali d'Italia furono 60, per salire di venti unità l'anno successivo; però di questi solo sei avvennero nelle colonie tanto nel 1896 che nel 1897 (91). Sproporzione la troviamo anche nel numero delle infrazioni, se si considera che nel 1896 esse furono solo 1694 nelle colonie e ben 25913 nelle case di reclusione, e nell'anno seguente furono 1379 nelle prime e 27618 nelle seconde (92). Per quanto attiene al numero dei recidivi nelle infrazioni disciplinari, furono "nel 1896 di 6538 nelle case di reclusione e di 322 nelle case di pena intermedie, e nel 1897 di 6679 nelle prime e 358 nelle seconde, in guisa che i recidivi rappresentano nelle prime oltre un terzo dei condannati, e nelle seconde poco più del decimo" (93). La situazione all'interno dei singoli stabilimenti è illustrata nella tabella seguente (94):
18961897
InfrazioniRecidiviInfrazioniRecidivi
ASINARA109559826
BITTI3665111
CAGLIARI (S. BARTOLOMEO)3012123212
CAPRAIA2154112135
CASTIADAS527154330181
GORGONA97196416
ISILI60145811
MADDALENA26562
PIANOSA1089711
PIOMBINO113121546
POZZUOLI31
TREMITI111932
TOTALE16243221379318
Interessanti sono anche le tabelle di seguito riportate indicanti le ricompense accordate ai condannati, sempre nel biennio di esercizio 1896-1897 (95):
1896LodePermesso di libriPermesso di sussidiPermesso di scrivereAumento sulle gratificazioniProposta di grazia
ASINARA21120
BITTI5168
CAGLIARI (S. BARTOLOMEO)416697
CASTIADAS721
GORGONA3969
ISILI1848
MADDALENA2156364
PIANOSA417364444
PIOMBINO729
POZZUOLI636
1897LodePermesso di libriPermesso di sussidiPermesso di scrivereAumento sulle gratificazioniProposta di grazia
ASINARA3106
BITTI153
CAGLIARI (S. BARTOLOMEO)712684
CAPRAIA45536
CASTIADAS1151191
GORGONA65528
ISILI71823
MADDALENA2243244
PIANOSA320383
PIOMBINO1637
TREMITI23312
Tra l'altro, secondo Dworzak (96), il fatto che in uno stabilimento penale ci sia fra i reclusi un livello morale alto è molto importante anche sotto il profilo della sicurezza, in quanto il lavoro agricolo in certe condizioni (97), influisce positivamente sulla disciplina dei carcerati, "rendendo rari i casi d'evasione anche indipendentemente del luogo ove si trova la colonia".

4 Domicilio coatto

Il domicilio coatto è strettamente connesso alle colonie penali agricole, ma ne è formalmente indipendente. Infatti mentre esso è un provvedimento di polizia preventiva in quanto "rappresenta in Italia uno dei mezzi con i quali il potere sociale adempie alle sue funzioni di prevenzione dei possibili danni privati e pubblici, onde possono esser cagione le persone pericolose alla città" (98), deportandole in luoghi isolati dal civile consorzio (la destinazione preferita sono le piccole isole), mentre le colonie penali agricole sono totalmente inserite nell'ambito del sistema penitenziario. Quindi sia l'uno sia le altre hanno in comune, di preferenza, il sistema della relegazione insulare, inoltre, anche se il domicilio coatto viene qualificato come strumento di polizia preventiva, comunemente viene considerato come una pena al pari di una condanna giudiziale (99). Sono dunque due istituti fortemente legati tra loro in quanto molte isole, tra cui quelle dell'arcipelago toscano, furono colonie coatte (100); successivamente furono utilizzate per accogliere i condannati.
Il domicilio coatto, che possiamo definire come misura di pubblica sicurezza, consiste "nella dimora obbligatoria, secondo certe regole e discipline, in un luogo designato, delle persone le quali, per ragioni tassativamente indicate dalle legge, sono da reputarsi pericolose alla società in guisa da dover esser per un certo tempo segregate da quel comune consorzio, al quale esse potrebbero esser facilmente causa di danno, per le prave tendenze manifestate" (101). L'istituzione del domicilio coatto nel Regno d'Italia avviene nel 1863 con la legge Pica (102), che ha lo scopo di fronteggiare un momento di forte tensione sociale riguardante soprattutto l'Italia meridionale, dove rappresenta un mezzo di lotta contro il brigantaggio e le organizzazioni malavitose (camorra). La legge dispone che "il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette (...)" (103). Secondo il Codice Penale sardo del 1859 sono persone sospette coloro "che sono diffamati per crimini o per delitti e singolarmente per grassazioni, estorsioni, furti e truffe, e coloro che sono sottoposti alla sorveglianza speciale della Pubblica Sicurezza" (104). Il regolamento di attuazione (105) prevede che "l'individuo cui è assegnato il domicilio coatto rimane libero (...)" (106), ma sottoposto alla sorveglianza da parte degli Ufficiali di Pubblica Sicurezza (107). Questo istituto nasce dunque, come abbiamo già detto, da esigenze straordinarie di ordine pubblico, per trasformarsi però col tempo in uno strumento ordinario, con finalità preventive. Interessante al riguardo è la legge di pubblica sicurezza del 1865 (108), nella quale all'art. 76 è previsto che il Ministro dell'Interno può "[...] eziandio per gravi motivi di sicurezza e d'ordine pubblico designare per un termine non maggiore di un anno il luogo nel quale l'ozioso o vagabondo recidivo dovrà stabilire il suo domicilio". Singolare è la circostanza che, l'incolpato di oziosità o vagabondaggio, tramite denunzia scritta (109) o anche in seguito della pubblica voce o notorietà (110), venga ammonito dal pretore a "darsi immediatamente a stabile lavoro, e di farne costare nel termine che gli prefigge, ordinandogli nel tempo stesso di non allontanarsi dalla località ove trovasi, senza preventiva partecipazione all'autorità di pubblica sicurezza" (111). Col passare del tempo però sembra che le originarie esigenze di stretto ordine pubblico, che erano alla base del domicilio coatto vadano sfumandosi, e si usi l'istituto per finalità alquanto diverse, come la tutela della morale pubblica. Il "Regolamento pel servizio di sorveglianza delle persone pregiudicate e sospette e pel domicilio coatto" del 1881, stabilisce che viola l'ammonizione anche chi "sia trovato a girovagare le osterie o gli altri esercizi pubblici, o darsi bel tempo nei teatri o in altri divertimenti, o altrimenti far spese eccedenti le proprie risorse, oppure cambiare spesso di abiti e vestire in modo non confacente ai propri mezzi economici, o mantenere donne pubbliche o in altro modo tenere condotta viziosa, o frequentare la compagnia di persone soggette e pregiudicate" (112). Dunque la caratteristica peculiare dell'istituto è il controllo di polizia sull'individuo e secondo il riformatore esso avrebbe dovuto contrastare fenomeni sociali rilevanti come la delinquenza comune e il vagabondaggio.
La realtà, tuttavia, fu ben diversa e per molti aspetti fallimentare, in quanto non fu possibile nella maggior parte dei casi ottenere l'emenda dei coatti attraverso il lavoro, che anzi continuavano ad oziare e vivevano in una situazione peggiore rispetto a quella dalla quale erano stati allontanati con i provvedimenti in vigore (113).
Altro aspetto negativo è che spesso le persone mandate nelle isole erano "capifamiglia", ovvero si trattava dell'unica fonte di sostentamento dei nuclei familiari, per cui l'allontanamento creava delle conseguenze disastrose nell'ambito familiare e sociale, causato dalla rottura dei rapporti umani (114).
Il domicilio coatto sopravvisse nei fatti fino all'epoca fascista (115), prendendo progressivamente forma di "funzione politica", per cui accanto ai camorristi gli "ospiti" più numerosi delle colonie furono i socialisti (116). Inoltre deve essere sottolineato il fallimento sia del fine proprio dell'istituto cioè quello di combattere il vagabondaggio nelle regioni meridionali, sia della funzione "rigenerativa" (117), che si voleva attribuire alle colonie coatte, fucine invece di più perfezionati delinquenti (118).
Il regio decreto del 6 novembre 1926, n. 1848 (119) introdusse al posto del domicilio coatto il confino di polizia (120). Come riportano gli studiosi Celso Ghini e Adriano Dal Pont, (121) l'istituto del confino, per come era strutturato, era una misura molto più restrittiva del semplice domicilio coatto, in quanto, esso "aggiungeva numerose altre restrizioni della libertà personale, in modo da renderlo (...) un 'carcere all'aperto'" (122).
L'art. 184 del citato testo unico prevedeva che al confino di polizia potevano essere assegnati, qualora ritenuti pericolosi alla sicurezza pubblica, gli ammoniti (123) e "coloro che abbiano commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali o economici costituiti nello Stato o a menomarne la sicurezza ovvero a contrastare od ostacolare l'azione dei poteri dello Stato per modo da recare comunque nocumento agli interessi nazionali, in relazione alla situazione, interna od internazionale, dello Stato". Il confino aveva una durata da un minimo di uno ad un massimo di cinque anni, da scontare in una colonia o in un Comune del Regno diverso dalla residenza del confinato (art. 186).
In ogni provincia venne istituita una commissione composta dal prefetto (che la convocava e la presiedeva), dal procuratore del Re, dal questore, dal comandante dell'arma dei carabinieri e da un ufficiale superiore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (art. 168) (124). Essa disponeva l'assegnazione al confino e la sua durata, potendo anche disporre l'immediato arresto delle persone prima che il confino fosse eseguito (186) (125).
Il confino di polizia, se aveva in comune con l'istituto del domicilio coatto l'obbligo di residenza in un determinato luogo (art. 193) (126), nonché l'obbligo del soggettodi darsi a stabile occupazione (art. 189), si distingueva per una numerosa serie di obblighi ulteriori che rendevano la vita al confino particolarmente dura. A tal proposito, l'art. 190 disponeva che al confinato potesse essere anche prescritto: "1) di non allontanarsi dall'abitazione scelta, senza preventivo avviso all'autorità preposta alla sorveglianza; 2) di non ritirarsi alla sera più tardi e di non uscire al mattino più presto di una data ora; 3) di non detenere né portare armi proprie od altri strumenti atti ad offendere; 4) di non frequentare postriboli, né osterie od altri esercizi pubblici; 5) di non frequentare pubbliche riunioni, spettacoli o trattenimenti pubblici; 6) di tenere buona condotta e di non dar luogo a sospetti; 7) di presentarsi all'autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza nei giorni che saranno indicati, e ad ogni chiamata della medesima; 8) di portar sempre indosso la carta di permanenza e di esibirla ad ogni richiesta degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza" (127).
Il numero esatto di persone che durante il periodo fascista furono condannati al confino di polizia è difficile da determinare, ma, con una buona approssimazione, esse furono da un minimo di 12.000 ad un massimo di 18.000 (128). I luoghi prescelti per il confino di polizia furono le isole di Favignana, Lampedusa, Lipari, Pantelleria, Ponza, Tremiti, Ustica e Ventotene, dove vennero costituite delle colonie (o utilizzate quelle già esistenti). Al contrario, nei Comuni di terraferma, non furono istituite colonie, ad eccezione di Pisticci, in provincia di Matera (129).
La conclusione che si può trarre da questo breve excursus sulle colonie coatte è che esse hanno svolto "un ruolo sussidiario all'intervento penale, in quanto ne sono destinatari soggetti ritenuti socialmente o politicamente pericolosi nei cui confronti l'accertamento di vere e proprie responsabilità penali si presenta problematico", come sostiene Neppi Modona, in "La parabola storica delle colonie penali" (130).

5 Deportazione e cenni alle colonie italiane d'oltremare

Con deportazione, secondo Franca Mele (131), si indica "in generale una sanzione penale che consiste nell'allontanamento del condannato dal paese in cui è stato commesso il delitto e nella relegazione in un'isola o in una terra lontana dalla patria".
Indipendentemente da ragioni di carattere espansionistico - militare, che hanno portato l'Italia a non essere una potenza coloniale, quanto meno in raffronto ad altre potenze europee, possiamo dire che l'Italia non ha mai avuto delle colonie penali d'oltre mare quindi non ha mai conosciuto la pena della deportazione (132). Ciò non significa che il tema non fosse dibattuto dai maggiori studiosi dell'epoca, e al di la di convinti fautori come il De Foresta (133) o il Cerruti, la dottrina prevalente era contro la deportazione. Interessante a tal proposito è la testimonianza di Carfora (134) il quale riporta il pensiero del noto studioso Beltrani Scalia, secondo il quale la deportazione è
"una pena diseguale, immorale, mancante di esemplarità, è la più costosa di tutte ed è quella, che dà risultati minori. È diseguale, perché mentre è di una gravità insopportabile per le persone deboli di salute ed amanti della loro patria e della famiglia, è per contrario desiderata da coloro, che, mancando di queste legittime affezioni, trovano in essa l'occasione di seguire una vita di avventura; (...) è immorale perché rompe i vincoli di famiglia, allontanando l'uomo da quelle persone, la cui presenza e i conforti delle quali possono influire sulla sua correzione, stimolandolo al pentimento; e quantunque i deportati sieno autorizzati ad aprir famiglia, le donne, colle quali possono facilmente contrarre matrimonio, non sono le più adatte a conseguire i risultati morali, che si pretendono, e si corre il pericolo che i figliuoli di questo connubio sieno educati nel male e nel vizio. Non è esemplare né intimidatrice, perché il deportato è sedotto dall'idea di libertà, che gode alla Colonia e della speranza di poter fare una fortuna col suo lavoro (...); originandosi di qui la terribile ingiustizia che i maggiori criminali godano di libertà e di vantaggi negati a quelli, i quali, meno delinquenti, scontano la pena nella madre patria".
Tutti gli studiosi sono comunque d'accordo nel ritenere che per risolvere i gravi problemi nei quali è immerso il sistema carcerario italiano, occorrono delle ingenti spese; pertanto anche tralasciando l'ipotesi della deportazione, il mantenimento e soprattutto il potenziamento delle carceri rappresenta comunque un problema economicamente rilevante per lo Stato. Pian piano però fra gli studiosi, si affacciano coloro i quali, come Nocito (135), propongono di utilizzare la deportazione, ma di attuarla nei territori italiani, in quanto sarebbe inutile andare a cercare "i banchi di perle e di coralli, gli arcipelaghi più o meno luminosi ed i mari più o meno pacifici", quando l'Italia è ricchissima di isolette adatte a tale scopo. Della stessa idea è Biamonti, secondo il quale è molto più corretto volgere lo sguardo alle isole italiane, perché così facendo la pena raggiungerebbe il suo vero scopo, cioè quello di "reprimere i delitti e ottenere la morale rigenerazione" (136). Detto questo, è difficile considerare e valutare oggettivamente la pena della deportazione, in quanto, come rileva correttamente Franca Mele (137) essa varia molto in ragione al luogo e alle modalità di esecuzione in cui viene applicata. La studiosa precisa infatti che nella deportazione
"il luogo prescelto può essere disabitato oppure no, il clima salubre o malsano, la terra più o meno fertile e coltivabile, insomma i fattori ambientali possono contribuire a rendere la pena più o meno dura. Altrettanto può dirsi delle modalità di esecuzione: infatti la deportazione può essere perpetua o temporanea, comportare un periodo di carcerazione in patria, risolversi in una semplice carcerazione o in un regime di semi-libertà durante il quale i condannati lavorano per conto dello Stato o di privati, può comportare la concessione di terre durante o dopo l'espiazione della pena, la possibilità che il deportato si crei una famiglia o che questa lo raggiunga. Molteplici possono essere anche gli obblighi o i diritti del deportato una volta conclusa la condanna: obbligo di risiedere nella colonia o, viceversa, di abbandonarla, o piena libertà di scelta, possibilità di esercitare solo alcune professioni, possibilità o divieto di divenire proprietario di terre".
Tutti i vari progetti sull'introduzione della deportazione che si alternano nei trent'anni che vanno dall'unità al "codice Zanardelli", benché molto eterogenei fra loro, con notevoli sfumature circa l'applicazione concreta della deportazione (138), si arenano, e alla fine lo stesso codice penale unitario del 1890 non prevede la pena della deportazione. Franca Mele (139) riporta la relazione fatta da Zanardelli che spiega le ragioni per le quali tale pena è esclusa; dice Zanardelli che la deportazione
"non è punto esemplare e intimidatrice, mentre non solo non incute proporzionato spavento, ma appare alla fantasia dei perversi circondata di speranze e di seduzioni, talché in Francia dopo la legge 1854 si videro malfattori condannati alla reclusione commettere altri delitti per essere trasportati alla Nuova Caledonia. La deportazione, d'altra parte, non è atta a procurare l'emenda del colpevole, poiché anzi è eccitamento a scellerate leghe e quasi campo aperto alla mutua corruzione. Essa infine, oltre ad essere sommamente dispendiosa, non presenta il carattere della certezza, prestandosi con facilità alle evasioni [...]".
Concludendo possiamo dire che, le ragioni che stanno alla base della deportazione, ovvero l'allontanamento dalla patria dei criminali più pericolosi, il ridurre la pressione demografica nei penitenziari e la colonizzazione di terre lontane, unite a delle cause storiche e politiche non hanno portato ad introdurre questa pena nel nostro ordinamento, neppure quando, ad imitazione delle altre grandi potenze europee, l'Italia conobbe una minima espansione coloniale. Ciò che invece l'Italia sperimentò seppur per un periodo limitato, furono le colonie penali d'oltre mare riservate ai delinquenti indigeni.
Interessante fu la colonia per coatti di Assab (140), nel Corno d'Africa italiano; oppure la colonia penale agricola per la redenzione dei criminali indigeni operante nell'oasi di Uau el Chebir, nel Sahara libico, fondata nel 1937 dal Maresciallo Balbo. Anche in questo caso l'assegnazione era prevista dopo un periodo di pena scontata in carcere, quando i condannati indigeni avessero dato prova di volontà di riscatto; veniva loro affidato un pezzo di terreno da bonificare e, se si mostravano meritevoli, dopo alcuni anni potevano ottenere la grazia sovrana. In sostanza si voleva realizzare contemporaneamente la "bonifica umana e la bonifica del terreno" (141). Altri interessantissimi esempi di colonizzazione penale, conosciuti dall'Italia nei primi decenni del XX secolo, furono le colonie penali agricole di Coefia, di Berka e di Castelluccio (Raaba), tutte ubicate nella Cirenaica italiana. Dalle parole di Achille Terruzzi, governatore della Cirenaica dal 1926 al 1929, a proposito degli stabilimenti agricoli (142), si capisce che queste colonie per indigeni avevano una buona organizzazione e che era ben sviluppata l'agricoltura, tutto ciò, quindi, poteva essere utile all'Italia coloniale di quegli anni. In seguito ad una tale positiva pubblicità, non mancò chi, come Tito Cicinelli (direttore superiore degli stabilimenti carcerari di Roma), propose di inserire anche "condannati metropolitani" (cioè italiani), negli stabilimenti africani, esperimento per il quale l'unica difficoltà vera era tutt'al più di carattere finanziario, mentre gli ostacoli che si volevano opporre erano solo di indole politica; non c'era infatti alcun problema climatico, "essendo risaputo che tutta la zona costiera della Cirenaica e l'immensa fascia montana che la separa dalla zona pre-desertica, hanno un clima il quale non differisce da quello della Sicilia che per un maggior grado di umidità affatto innocuo". Non sarebbe nemmeno un problema, continua Cicinelli, "una minore attitudine dei condannati metropolitani in confronto degli indigeni al genere di lavoro da compiersi laggiù, verificandosi proprio il contrario, per la povertà di cognizioni agricole delle popolazioni libiche e per quella loro repugnanza ad ogni lavoro faticoso che è spiccata caratteristica della razza" (143). Tali esperimenti, comunque, così lodati dagli studiosi, furono solo una brevissima parentesi nella vita giuridica italiana, quasi a voler rappresentare un'immagine coloniale che nei fatti l'Italia non aveva.
Oltre a ciò, secondo la ricostruzione fatta da Carfora, è interessante notare che l'organizzazione tipica della colonia poteva essere applicata a quei "comitati di patronato per i liberati dal carcere" che, sebbene nella pratica mai attuati, secondo molti studiosi del tempo (144) avrebbero "rappresentato un complemento della pena vantaggioso non solo alla società, che vi guadagnerebbe in sicurezza ma anche al condannato, che vedrebbe facilitato il suo riadattamento alla vita sociale". Altre volte invece assumono il carattere di colonia penitenziaria quegli istituti indirizzati alla correzione dei giovani delinquenti (145). Infine un accenno deve esser fatto alle "colonie per figli dei carcerati" (146), istituto che trova il suo fondamento in una concezione "ereditaria del crimine", per cui "il discendente da un delinquente debba sottoporsi a certe speciali cure morali, perché in lui si steriliscano i germi, che hanno potuto per avventura essergli trasmessi", in quanto la "tendenza al delitto può trasmettersi per eredità o per atavismo" (147). Ma certamente la "summa divisio", la classificazione più importante nella quale possono essere divise le colonie, riguarda la distinzione tra le colonie penali d'oltre mare e le colonie agricole site nei confini naturali dello Stato. Al primo tipo di colonie guardarono principalmente quei Paesi che, come l'Inghilterra, conoscevano la pena della deportazione (148); il secondo tipo, invece, comprende quegli istituti che, come gli stabilimenti di pena intermedi, sono luoghi in cui vengono destinati quei condannati meritevoli, i quali con la loro buona condotta abbiano dato prova di emenda e svolgono un lavoro prevalentemente agricolo.

Capitolo II
Aspetti giuridici delle colonie penali agricole

1 La normativa del Regno d'Italia nell'Ottocento e nel Novecento

1.1 Dall'unità alla unificazione penale del 1889

Nel precedente capitolo abbiamo visto come la prima colonia penale agricola nasce a Pianosa nel 1858 (1) grazie al progetto del cav. Peri (2), e con l'invio dei primi sedici corrigendi nel maggio dello stesso anno. Essendo l'isola di Pianosa un territorio appartenente al Granducato di Toscana, al nuovo istituto si applica integralmente il "regolamento fondamentale degli stabilimenti penali" (3), testo approvato insieme al codice penale del 1853. Come noto, l'Italia raggiungerà l'unificazione legislativa del diritto penale solamente nel 1889 col codice Zanardelli (4), mentre prima di esso esistono tre differenti legislazioni penali: il codice sardo - piemontese viene progressivamente esteso alle regioni settentrionali; lo stesso codice "modificato" da due decreti luogotenenziali del 1861 in vigore nelle regioni meridionali; il codice toscano modificato dal governo provvisorio nel 1859 che elimina formalmente la pena di morte. (5) Per quanto riguarda il regolamento delle carceri del Granducato di Toscana (6), esso disciplina l'intera materia in modo relativamente chiaro e semplice; infatti si compone di soli ventisette articoli divisi in sette capi, rispettivamente riguardanti il vitto, il vestiario, il lavoro, le mercedi, la disponibilità della mercede, il modo di temperare la severità della segregazione continua ed infine le punizioni.
Bisogna rilevare che il regolamento prevede, in modo conforme col codice penale (7), le sole pene dell'ergastolo, della casa di forze e del carcere. Molto interessante è il capo III riguardante il lavoro dei condannati; anzitutto viene stabilita l'obbligatorietà del lavoro a totale profitto dell'amministrazione, avendo riguardo nella scelta del mestiere alle "inclinazioni ed alle attitudini del condannato" (8); l'art. 16 si occupa delle mercedi, le quali non hanno lo scopo di pagare il lavoro dei detenuti (il cui profitto spetta all'amministrazione) ma a "promuoverne la loro operosità e buona condotta, e ad accumulare per essi un avanzo, col quale, se miserabili, possono provvedere, scontata la pena, ai primi bisogni della loro libertà". Infine il capo V riguarda i modi attraverso i quali i condannati possono usufruire della quota disponibile delle mercede giornaliera (9), in particolare la gestione del "sopravvitto" (10). Come si può constatare da questi articoli, il regolamento, nella sua semplicità, regola abbastanza agevolmente l'organizzazione delle "prigioni tradizionali", ma la neonata colonia di Pianosa, richiedeva una organizzazione del tutto particolare.
L'istituto di Pianosa sopravvisse alla unità d'Italia, anzi si arrivò nel giugno del 1861 ad un record di 149 condannati (11); nel frattempo l'esigenza di uniformare i regolamenti carcerari fece in modo che nel 1862 venne promulgato il "Regolamento Generale per le Case di Pena" (12), il quale all'art.1 prevedeva espressamente la sua applicabilità anche agli "stabilimenti penali esistenti nelle Provincie Toscane in forza dei provvedimenti speciali vigenti in esse, e non compresi nelle suindicate categorie di case [e cioè le case di forza per i condannati alla detenzione, i castelli od altri luoghi forti per i condannati alla relegazione, le case di correzione per i condannati al carcere, e le case di pena per i condannati alla custodia]". Tale regolamento si sarebbe dovuto applicare anche a Pianosa, benché la colonia penale agricola non fosse stata menzionata specificatamente. Questo regolamento, a differenza di quello toscano, è molto più complesso ed articolato, in quanto conta ben cinquecentocinquantotto articoli, i quali disciplinano minuziosamente l'intera organizzazione degli istituti di pena (13).
Ben presto però ci si accorge che l'istituto di Pianosa rappresenta una tipologia di casa panale con delle caratteristiche così particolari che, ad integrazione di questo regolamento, viene emanato un decreto del Ministero dell'Interno che riguarda esclusivamente la colonia di Pianosa (14), a cui fa poi seguito una circolare, sempre del Ministero dell'Interno (15), la quale si occupava specificamente dei criteri circa il trasferimento dei condannati dalle case penali alla colonia di Pianosa; il Ministro in particolare stabilì che: "1) I condannati da prescegliersi, abbiano diggià scontata metà della pena. 2) La loro condotta sia stata lodevole, ed abbiano fornite non dubbie prove di ravvedimento, e non siano incorsi in punizioni durante gli ultimi sei mesi. 3) Siano di robusta costituzione e vengano riconosciuti idonei e validi ai lavori agricoli. 4) Non siano stati condannati per delitti di sangue". Tutto questo si rese necessario per evitare che sull'isola giungessero persone pericolose, le quali mettessero a rischio il buon funzionamento della colonia, oppure persone totalmente inabili al lavoro agricolo.
Questa situazione di disorganicità, dovuta al regolamento applicato solo in parte e a integrazioni ministeriali emanate per colmare vuoti legislativi, ma non esaustive, durò per molti anni, e il decreto ministeriale del 1863 veniva a mano a mano esteso alle nuove colonie che sorsero in Italia, senza giungere a una soluzione organica in materia legislativa. Solamente nel 1887 viene emanato il nuovo regolamento per le colonie penali agricole (16), con validità dal primo marzo dello stesso anno. L'esigenza di creare una nuova normativa per le colonie era data dal fatto che ormai il decreto ministeriale del 1863 per Pianosa, non era più applicabile alla generalità delle colonie penali, in quanto ognuna di esse aveva delle proprie caratteristiche organizzative (17) e di funzionamento, per cui si rese necessaria una disciplina generale dell'intera materia. Questo nuovo regolamento, composto di ben settantadue articoli, rappresenta una normativa speciale destinata alle colonie penali agricole, fermo restando per tutto il resto il regolamento generale per le case di pena del 1862 (18). All'art. 1 si stabilisce anzitutto che le colonie possono essere di due specie, quelle destinate ai condannati ai lavori forzati e quelle ai condannati a tutte le altre pene, inoltre vengono stabiliti i principali lavori che si svolgeranno all'interno delle colonie, in particolare quelli di coltivazione, di dissodamento e bonifica dei terreni, i lavori riguardanti la "costruzione di strade e fabbricati e nell'esercizio di arti affini o sussidiarie dell'agricoltura o di speciali industrie in servizio delle Colonie stesse" (Art. 3). Viene fatta inoltre definitiva chiarezza circa le modalità di invio nelle colonie (19), precisando che in esse "sono inviate per ordine del Ministero, in seguito a proposta motivata del Consiglio di disciplina dei varii luoghi di pena, i condannati che, per la durata dell'espiazione fatta e per la lodevole condotta tenuta, siano riconosciuti meritevoli di premio" (art. 4), ed inoltre stabilendo che, pena l'allontanamento (20), il requisito della buona condotta deve persistere durante tutto il tempo di permanenza nella colonia (art. 5). Alla guida della colonia vi era il direttore (art.10), ma, fra le più rilevanti novità previste da questo regolamento, viene data la possibilità al Ministero di nominare un agronomo (quale vero e proprio vicedirettore) (21), col compito di affiancare il direttore per quanto riguarda in particolare le decisioni specifiche e tecniche attinenti "all'agricoltura ed industrie affini" (art. 11), essendo egli anche responsabile della "buona conservazione (...) dei prodotti" (art. 20) e "della conservazione delle macchine (...) e all'allevamento del bestiame" (art. 19).
Le norme riguardanti i condannati prevedono che, al posto dell'usuale isolamento prescritto per i detenuti al loro arrivo in carcere, i destinati alle colonie vengano istruiti circa le regole che dovranno osservare durante la loro permanenza (art. 42), in particolare viene riconfermata, la regola di stampo "auburniano" circa l'obbligo del silenzio pressoché sempre presente durante tutta la giornata (art. 43), ad eccezione che "nelle ore del passeggio e del riposo [dove] i condannati potranno intrattenersi tra loro discorrendo a voce modera e nell'ordine più perfetto", precisando che "i canti, le grida e le conversazioni clamorose saranno sempre e ovunque assolutamente vietate" (art. 45) (22).
Riguardo al lavoro, l'art. 56 stabilisce che "tutti i condannati sani (...) saranno occupati nelle officine, o all'aperto in lavori agricoli in gruppo o in squadre (...) sempre sotto la vigilanza di un numero competente di guardie carcerarie [mentre] di notte saranno vigilati neidormitorii in comune" (23). Le mercedi spettanti ai condannati lavoranti saranno in linea di massima conteggiate col sistema a cottimo (art. 59) (24).
Come si può vedere, questo regolamento non porta delle modifiche significative alla regolamentazione delle colonie, però rappresenta un importante provvedimento che rende organica e uniforme questa materia, in attesa anche della tanto sperata unificazione della legislazione penale. Le uniche modifiche di un certo rilievo riguardano i criteri di assegnazione alle colonie, ed in particolare la cancellazione dei limiti temporali sia per quanto riguarda la durata della pena originaria, sia per quanto riguarda la frazione di questa in cui il condannato deve aver dato prova di buona condotta (25).
Nella lunga strada che si conclude con la promulgazione del "codice Zanardelli", le numerose commissioni nominate per la compilazioni di progetti di codice, non mancheranno di soffermarsi sulla questione delle colonie penali (26). Sintetizzando possiamo dire che alla fine di tutti questi lavori la maggioranza degli studiosi sono favorevoli a questa tipologia di istituti penali (27), ma al contempo si cerca di inserire modifiche tali da permettere di non indebolire il carattere repressivo e afflittivo che le colonie debbono comunque avere.
La proposta di utilizzare le colonie penali agricole come luoghi alternativi dove scontare le pene, prese forma e maturò nell'ambito di quel movimento filosofico e di pensiero denominato scuola classica criminale. In sostanza tale scuola sostiene, in modo concorde ai principi illuministici scaturiti dalla rivoluzione francese, che l'uomo è un essere totalmente razionale e dotato di libero arbitrio, che gli permette di calcolare razionalmente tutti i vantaggi e svantaggi conseguenti al proprio agire (28).
Pertanto uno dei concetti cardine del diritto penale, secondo tale scuola di pensiero, è costituito dalla volontà colpevole dell'autore del reato, indipendentemente da qualunque condizionamento di ordine sociale, unito al concetto di imputabilità, per cui l'autore del reato è ritenuto in grado di capire il disvalore etico del proprio agire e in base ad esso di autodeterminarsi (29).
In generale possiamo affermare che i maggiori studiosi della Scuola Classica quali Francesco Carrara (1805-1847), Giovanni Carmignani (1768-1847), Pellegrino Rossi (1787-1848), Enrico Pessina (1828-1916), avevano una concezione retributiva e general preventiva della pena, la quale doveva essere afflittiva, proporzionale al reato, determinabile e inderogabile.
In particolare, come riporta Cattaneo, Francesco Carrara definisce la pena come "quel male che in conformità della legge dello Stato, i magistrati infliggono a coloro che sono con le debite forme riconosciuti colpevoli di un delitto" (30). Inoltre lui ritiene che:
"la pena non è un mero bisogno di giustizia che esiga la espiazione del male morale. Dio solo ha la natura e la potestà di esigere la dovuta espiazione. Non è una mera difesa che l'interesse degli uomini si procacci a spese altrui. Non è lo sfogo di un sentimento degli uomini che mirino a tranquillizzare gli animi loro rimpetto al pericolo di offese future. La pena non è che la sanzione del precetto dettato dalla legge eterna: la quale sempre intende alla conservazione della umanità, ed alla tutela dei suoi diritti; sempre procede sulle orme del giusto; sempre risponde al sentimento della coscienza universale". (31)
Infine Carrara osserva che è importante tenere distinto il principio fondamentale della pena dallo scopo della stessa, in quanto:
"Lo studio del principio fondamentale della pena conduce a trovare il criterio essenziale delle azioni delittuose; cioè cosa debba essere nelle azioni umane perché possano vietarsi. E il risultato di tale studio secondo la nostra formula si compendia in questo: debbono essere azioni lesive del diritto alle quali non si ottenga completa riparazione con la solacoazione fisica, ma siavi bisogno di una sanzione. Lo studio del fine della pena conduce a trovare i criterii misuratori dei delitti, e così delle pene medesime". (32)
Lo studioso afferma, inoltre, che il fine primario che deve avere la pena è solo quello di ristabilire l'ordine esterno della società, precisando che "se il giudice nello irrogare la pena si proponesse un fine diverso da quello che il legislatore si propose nel minacciarla, la condanna non sarebbe più la sequela necessaria della legge; non sarebbe più un'azione giusta, ma un'azione politica: e il giudice neldiverso fine supposto potrebbe trovare una ragione di deflettere dalla coerenza della legge" (33).
Per concludere Carrara ritiene che
"la pena è destinata ad agire sugli altri più che sul colpevole (moralmente già s'intende) ma non basta che agisca suimalvagi: bisogna che agisca sufficientemente sui buoni, per farli tranquilli così rimpetto al delinquente stesso, come rispetto ai temuti suoi imitatori. Quindi quel male che sarebbe sufficiente sanzione al precetto, perché avrebbe bastante azione sui malvagi in quanto oppone loro un patimento superiore all'utile del delitto, può non avere sufficiente azione sui buoni per tranquillizzarli rispetto allo stesso colpevole. Vi è bisogno di una detenzione prolungata perché i cittadini non abbiano ragione di temere che colui, troppo presto liberato, torni alle offese. Ecco come il concetto della difesa diretta si ricongiunge al fine della tranquillità e viene a completare il criterio misuratore delle pene. [...] Così la pena che niente rimedia al male materiale del delitto, è rimedio efficacissimo ed unico del male morale. [...] In tal guisa l'ultimo fine della pena è il bene sociale, rappresentato nell'ordine che si procaccia mercé la tutela della legge giuridica; e l'effetto del fatto penale si ricongiunge con la causa che lo legittima. [...] Tali condizioni della penalità, essendo derivazioni dal suo principio assoluto, legano lo stesso legislatore, il quale non può senza abuso defletterne [...]" (34).
Ciò che afferma Carrara è comune ai pensatori della scuola classica criminale di quel periodo, e lo studio dei caratteri che la pena dovrebbe avere è molto importante perché da questo si capisce l'importanza che ebbe l'istituto delle colonie penali agricole nella seconda metà dell'Ottocento (35).
Le colonie agricole, infatti, visto che sorgevano principalmente nelle isole o comunque in luoghi fisicamente separati dalla società civile, ben si prestavano a comminare al proprio interno delle pene che avevano come proprio fine principale la difesa sociale e la prevenzione generale (36); tutto questo perché nelle colonie penali veniva ricreata una specie di comunità civile, la quale rappresentava già di per sé un modo di tutela della società libera. Inoltre, come abbiamo visto, gli scopi di rigenerazione fisica e morale che veniva attribuito al lavoro agricolo, almeno nelle intenzioni degli studiosi, doveva rendere alla società un individuo cambiato, non più dedito al crimine.
Concludendo possiamo affermare che le colonie ben si inseriscono in quella politica criminale della scuola classica per cui "non si punisce in relazione al delitto commesso, ma in vista delle sue ripercussioni sul corpo sociale" (37).

1.2 Il codice Zanardelli e il regolamento carcerario del 1891

Queste discussioni avranno come risultato quello di riconoscere formalmente le colonie penali nel codice Zanardelli, con la denominazione di "case di pena intermedia agricole e industriali" (38), in quanto, come spiega lo stesso Zanardelli, così facendo si elimina "l'equivoco cui poteva dar luogo il nome di colonia [a causa del] significato più proprio a tale vocabolo, che è quello di indicare lontani possedimenti" (39). Dopo circa due anni dall'entrata in vigore del nuovo codice penale, nel 1891 viene emanato il nuovo "Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari e pei riformatorî governativi del Regno" (40), il quale all'articolo 4, elencando gli stabilimenti di pena speciali, annovera al primo posto proprio "le case di pena intermedie, agricole ed industriali". Tale regolamento è composto da ben 891 articoli, i quali disciplinano in modo particolareggiato e minuzioso il complesso sistema carcerario. Sono presenti inoltre sette articoli (452 - 458) che si occupano esclusivamente degli stabilimenti intermedi, prevedendo anzitutto che l'ammissione agli stessi viene "decretata dal Ministero dell'Interno, sulla proposta motivata del consiglio di sorveglianza dello stabilimento in cui il condannato alla reclusione sconta la pena (art. 452). Viene inoltre precisato che per essere ammesso a tali stabilimenti, il condannato per un tempo non minore di tre anni "abbia scontato la metà della pena, ma non meno di trenta mesi" (art.453), e chiaramente il requisito della buona condotta deve sempre persistere durante tutto il tempo di permanenza nella colonia, pena la revoca della stessa (41) (art.454). Inoltre i condannati sono divisi in due classi, quella denominata "permanente" e quella denominata "preparazione" (art. 456); alla prima sono assegnati coloro che non possono accedere alla libertà condizionale (42), alla seconda appartengono tutti gli altri condannati (43). Sempre prevista è la possibilità della nomina dell'agronomo da parte del Ministero dell'Interno (art. 133), al quale è prevalentemente "affidato l'indirizzo dei lavori agricoli e la sorveglianza diretta su di essi" (art. 134) (44).
Come evidenzia Santoriello (45), le colonie sul finire dell'Ottocento, cominciarono ad essere oggetto di numerose critiche, determinate soprattutto dalle aspre polemiche circa i costi eccessivi delle stesse (46). Inoltre anche nelle colonie, seppur con intensità minore rispetto agli istituti di pena tradizionali, la componente repressiva e afflittiva divenne predominante rispetto alle finalità rieducative cui il "progetto colonie" mirava (47). Tutto ciò portò ad un lento smantellamento delle stesse, oppure ad un loro utilizzo con finalità diverse rispetto a quelle per cui erano state create (48).
Enrico Ferri, commentando il codice Zanardelli (49), criticò abbastanza duramente il sistema cellulare, che a suo dire era "un'invenzione dei popoli nordici, che non può adattarsi alla natura vivace ed immaginosa dei popoli meridionali, per i quali dieci anni di segregazione cellulare sono una sevizia inutile, mentre lo stesso condannato si potrebbe mandare in colonie agricole penitenziarie, rendendo il condannato stesso più proficuo e facilitandone l'emenda" (50).
Lo studioso, inoltre, riserva delle critiche per quanto concerne il sistema graduale delle pene previste dal codice Zanardelli, ovvero il fatto che "l'attenuazione graduale nell'espiazione delle condanne sia ammessa per le pene che sarebbero destinate ai delinquenti volgari e pericolosi e sia negata per la detenzione che sarebbe (...) [invece] destinata ai delinquenti meno pericolosi" (51).
Egli propone che il delinquente d'occasione, o di cagionevole costituzione fisica, non venga assegnato alle fatiche del lavoro agricolo, ma vengano trovate per lui più appropriate forme di detenzione intermedia (52); il lavoro agricolo sarebbe da ammettere solo per i "delinquenti volgari", a patto però che "la sua applicazione possa conciliare il diritto individuale [del condannato al lavoro all'aperto] col concetto della sicurezza della società".

1.3 Il Pensiero della scuola positiva sul tema delle colonie penali agricole. Il Progetto di codice penale di Enrico Ferri del 1921

Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, spesso si sono scontrate più visioni distinte circa il ruolo e le funzioni che potevano avere le colonie penali agricole (53). Tali diverse visioni, erano però accomunate dal fatto di appartenere alla scuola classica criminale, ovvero quell'indirizzo di pensiero politico sociale che, partendo dalla rivoluzione francese, si inspirò alla dottrina del diritto naturale e al metodo deduttivo (54) (o di logica astratta), come armi contro le concezioni del passato ancien regime (55). In sostanza il suo indirizzo filosofico - giuridico prevedeva che la totale attenzione dovesse essere riservata esclusivamente "sul delitto e sulla pena come entità giuridiche astratte, isolate tanto dall'uomo che delinque e che è condannato, quanto all'ambiente da cui esso proviene ed a cui deve ritornare dopo la sua pena" (56). Se da un lato tale scuola di pensiero ebbe indubbiamente il merito di scardinare le vecchie concezioni penali medievali, contribuendo in modo importante alla "umanizzazione" delle pene nonché al limitare quanto più possibile l'uso della pena capitale (57), dall'altro la scienza penale e criminale perse col tempo totalmente di vista la figura del delinquente, il quale veniva considerato solamente come una vittima della tirannide statale, e il risultato fu, scrive Ferri, un "aumento continuo della criminalità e della recidiva, in evidente quotidiano contrasto colle necessità della difesa sociale contro la delinquenza, che è la ragion d'essere della giustizia penale" (58).
Nella seconda metà dell'Ottocento, comincia a svilupparsi una nuova corrente di pensiero, chiamata scuola criminale positiva, la quale usa un metodo d'indagine induttivo (59) (o positivo appunto) di cui era stato portatore nel campo scientifico qualche secolo prima Galileo Galilei. La novità sta nell'usare il metodo empirico anche nelle scienze criminali, con la nascita di una scienza autonoma, l'antropologia criminale, che ha come oggetto di studio proprio l'uomo delinquente e il suo agire, considerando soprattutto la sua dimensione psicologica oltre che organica (60).
Relativamente ai modi per combattere le delinquenza, la scuola positiva non riteneva che il rimedio migliore fosse la pena (61) (non le pene esemplari tipiche del Medioevo, ma neppure le pene mitigate accolte dalla scuola classica), ma sosteneva che fosse importante studiare le cause (psicologiche, organiche, sociali) che hanno portato al delitto, e cercare di agire sulle stesse (per esempio mediante politiche sociali adeguate se la causa del crimine è nella società dove vive il condannato) (62) per prevenire i comportamenti delittuosi.
Oltre alla prevenzione, dato che è parimenti importante il difendere la società una volta che l'evento criminoso si sia compiuto, la scuola positiva mantenne l'esigenza della repressione dei delitti, avendo però idee assai diverse dagli studiosi della scuola classica (63). In particolare, una grande differenza era rappresentata dalla concezione dell'isolamento cellulare, che Ferri definì "una delle aberrazioni del secolo XIX". Egli sosteneva la necessità di "sostituire ad esso, specie nei paesi del sole, come l'Italia, le colonie agricole col lavoro all'aperto" (64).
Per capire in maniera pratica come la scuola criminale positiva intendesse le colonie penali agricole, è particolarmente interessante lo studio del progetto di codice penale, elaborato da Ferri nel 1921 (65). All'articolo 39, dove vengono elencate le diverse specie di sanzioni per i delitti comuni, commessi dai maggiori di anni 18, viene riportata la "segregazione semplice in casa di lavoro o colonia agricola", oltre che la multa, l'esilio locale, il confino, la prestazione obbligatoria di lavoro diurno, la segregazione rigorosa in uno stabilimento di reclusione e la segregazione rigorosa perpetua. Lo stesso progetto precisa che "la prestazione obbligatoria di lavoro diurno si effettua in una casa di lavoro e colonia agricola dello Stato, senza detenzione notturna del condannato, per un tempo non inferiore ad un mese e non superiore a due anni" (art. 50), e che "la segregazione semplice in una casa di lavoro o colonia agricola consiste nell'obbligo di lavoro industriale od agricolo durante il giorno, con isolamento notturno, per un tempo non inferiore a tre anni e non superiore a 15 anni" (66). Infine all'articolo 52 viene previsto che "la segregazione rigorosa temporanea in uno stabilimento di reclusione consiste nell'obbligo del lavoro industriale od agricolo durante il giorno, con isolamento notturno, per un tempo non inferiore a tre anni e non superiore a venti anni oppure a tempo assolutamente indeterminato col minimo di 10 anni" (art. 52).
Come dimostra la lettura di queste norme, se si esclude la pena della multa (67), dell'esilio locale (68) e del confino (69), le pene propriamente detentive sono caratterizzate tutte dall'obbligo di lavoro in una colonia agricola o in uno stabilimento industriale, circostanza avvalorata dal fatto che tale tipologia di sanzione venne scelta anche come pena principale per i minorenni (70), per i malati di mente (71) e per coloro che si macchiavano di crimini politici (72). Infine l'art. 513 prevede che "alcune case di lavoro e colonie agricole saranno destinate ai delinquenti abituali di che all'art. 28" (73).
Particolarmente interessanti sono anche le norme che si occupano specificatamente del lavoro carcerario, prevedendo l'art. 70 che "a ciascun stabilimento di detenzione si assegneranno i condannati che si trovino in condizioni fisiche e psichiche più affini, anche in rapporto al delitto commesso, alla loro vita precedente e alle loro attitudini di lavoro", in riferimento alle colonie penali agricole l'art. 71 dispone che il lavoro "in tutti gli stabilimenti di detenzione e di custodia deve essere preferibilmente all'aria libera ed organizzato a scopo non soltanto educativo ed igienico, ma anche di abilità tecnica e di rendimento economico" (74).
Nella relazione preliminare presentata dalla stesso Ferri, viene riportata l'opinione favorevole della commissione che si occupa del progetto di codice penale, per cui "la prestazione obbligatoria di lavoro diurno in una casa di lavoro o colonia agricola dello Stato e cioè senza detenzione notturna del condannato, è una forma nuova di sanzione che (...) potrà dare buoni risultati". Tale ottimismo deriva dal fatto che la sanzione in oggetto sia da applicare solamente ai delinquenti occasionali, non pericolosi e per delitti non gravi, così da avere l'indiscusso vantaggio di "disciplinare il lavoro e di completarne l'istruzione tecnica, senza obbligarli alla detenzione anche notturna e quindi senza staccarli dalla loro famiglia" (75). Ferri continua dicendo che tale forma di segregazione parziale, se "applicata dal giudice con criteri di adattamento alla personalità ed alla vita precedente degli imputati meno pericolosi, promette di essere uno opportuno mezzo di rieducazione alla vita libera ed onesta" (76).
Pertanto possiamo affermare che per la scuola positiva il lavoro (in particolare quello agricolo svolto all'aria aperta) è necessario in ogni istituto penitenziario (77), sia perché esso permette al delinquente, al pari di ogni altro cittadino non invalido, di provvedere alla propria esistenza (78), sia perché così facendo non viene tolto alla società "il diritto di farsi compensare dal condannato valido al lavoro delle spese necessarie per il suo mantenimento" (79). Il fatto che la scuola criminale positiva concentri la propria attenzione principalmente sulla figura del delinquente piuttosto che sul delitto astrattamente inteso, comporta che la scelta del tipo di lavoro a cui destinare il condannato sia molto importante, ma in generale il lavoro agricolo all'interno di colonie risponde bene alle esigenze di rieducazione sociale cui mirano i positivisti.
Gli esponenti della scuola criminale positiva sostengono che il lavoro carcerario dovrebbe essere per la maggior parte un lavoro agricolo da svolgersi nelle terre malariche e insalubri, e dato che è appurato che "a redimere queste terre italiane dalla malaria necessiti il sacrificio di vite umane, o di lavoratori onesti o di lavoratori condannati, niun dubbio che questi devono essere i primi e possibilmente i soli sagrificati" (80). Al riguardo, interessante è la contrapposizione tra la visione di Ferri e quella di Beltrami Scalia; Ferri, infatti dice espressamente di non poter "ammettere la proposta di Beltrami Scalia, che per i condannati alle bonifiche 'il lavoro, nel quale essi consumano e rischiano la loro vita, abbia per compenso una diminuzione di pena equivalente ad un prolungamento della vita stessa'[per cui] per il Beltrami par quasi che il condannato faccia una concessione allo Stato, andando a lavorare in quelle terre; per noi questa non è che la conseguenza del suo delitto" (81). Pertanto Ferri è favorevole a creare un numero elevato di colonie penitenziarie e compiuta la prima bonifica, queste "dovrebbero, plaga per plaga, essere seguite e sostituite da altrettante libere colonie agricole, date direttamente alle società cooperative dei nostri contadini, che troverebbero così, senza i patimenti dell'emigrazione i primi e più efficaci rimedi alle loro condizioni, che ora, purtroppo, fanno loro invidiare il trattamento che ai delinquenti assicura lo Stato" (82).
Il lavoro all'interno delle colonie dovrebbe essere organizzato "su misura del delinquente" (83), cioè, a differenza del pensiero della scuola criminale classica, esso non deve essere inteso solo come un'attività per togliere l'individuo dall'ozio durante la permanenza in carcere, o magari concepito solamente come preparazione a quando il delinquente avrà riacquistato la libertà, ma il lavoro costituisce per il pensiero della scuola positiva un "materiale prezioso per lo studio scientifico dell'uomo delinquente", dal quale sia possibile - attraverso la compilazione di apposite schede biografiche di ogni detenuto - trarre dei dati positivi e dei criteri non arbitrari per il trattamento dei detenuti e dei recidivi.

1.4 Il codice Rocco e il regolamento carcerario 1931

Dalla contrapposizione ideologica in campo penale tra la scuola classica e quella positiva scaturirono le premesse che portarono al nuovo codice penale del 1930. Una delle novità sicuramente più significative è rappresentato dall'introduzione del cosiddetto "doppio binario", ovvero come spiega Mantovani, "il dualismo della responsabilità individuale - pena retributiva e della pericolosità sociale - misura di sicurezza. Dualismo, che riflette il contrasto di fondo tra indeterminismo classico e determinismo positivista, il quale trova la sua più stridente espressione nelle ipotesi di responsabilità attenuata - pericolosità, cioè dei semimputabili pericolosi, che come tali vengono assoggettati sia ad una pena diminuita sia a misura di sicurezza" (84).
L'intero sistema penale si trova quindi radicalmente cambiato nei suoi presupposti essenziali (85), ed è facile capire come ciò non poteva non avere conseguenze dirette anche sul sistema penitenziario. Anzitutto bisogna partire dalla nozione di misura di sicurezza qualificabile come quei provvedimenti che "hanno una finalità terapeutica, rieducativo - risocializzatrice, e sono applicati a soggetti pericolosi che hanno già commesso un fatto penalmente rilevante" (86). In particolare, come osserva Mantovani le misure di sicurezza sono diverse dalle pene
"poiché sono la conseguenza di un giudizio non di riprovazione per la violazione di un comando, ma di pericolosità, non di responsabilità, ma di probabilità di futura recidiva. Non hanno perciò carattere punitivo, ma tendono a modificare i fattori predisponesti all'atto criminale. Benché implichino una diminuzione dei diritti o della stessa libertà personale del soggetto, tale afflittività non è concepita in funzione punitiva, ma è la conseguenza inevitabile di un provvedimento diretto ad altro scopo. Ne deriva che: a) mentre la pena è determinata in quanto proporzionata al fatto già accaduto, la misura di sicurezza è logicamente indeterminata in quanto proporzionata alla prognosi di pericolosità: cessa soltanto col cessare di questa; b) a differenza della pena, che ha come destinatari gli imputabili e i semimputabili, la misura di sicurezza è applicabile anche ai non imputabili, se pericolosi, cumulandosi nei primi due casi con la pena, mentre nel terzo caso trova applicazioneesclusiva" (87).
Il legislatore ha ritenuto che le misure di sicurezza dovessero essere scontate in istituti che garantissero al meglio le finalità terapeutiche, di rieducazione e di risocializzazione del soggetto, ed ha pensato che in tali istituti dovessero essere, per coloro che non erano affetti da vizi di mente, le colonie penali agricole e le case di lavoro. All'interno di questi istituti il lavoro veniva considerato, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, una componente irrinunciabile alle finalità di recupero del soggetto, e ciò, se aveva portato risultati positivi per i condannati, sicuramente si rendeva egualmente utile per gli internati sottoposti a misura di sicurezza detentiva.
Inoltre le colonie penali, situate prevalentemente su isole o in luoghi comunque distanti dalle città, si adattavano bene anche alle ulteriori finalità che, per il Guardasigilli Alfredo Rocco, le misure di sicurezza dovevano avere. Per Rocco infatti, le misure di sicurezza sono
"mezzi di prevenzione individuale della delinquenza, aventi carattere di integrazione dei mezzi repressivi di lotta contro la criminalità, in genere, e della pena in specie. (...) [Quelle] personali limitano la libertà individuale e tendono alla prevenzione con impedimento materiale e diretto di nuovi reati, o con azione eliminatrice o modificatrice dei coefficienti fisio - psicologici della delinquenza, ovvero con mezzi diretti a sottrarre l'agente alle occasioni e agli influssi ambientali, e, in genere, agli adescamenti criminosi. Di esse alcune (assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro, ricovero in una casa di cura e custodia, ricovero in un manicomio giudiziario, ricovero in un riformatore giudiziario) sono detentive, applicabili in casi che richiedono tale grave limitazione della libertà, sia per l'indole e il grado della pericolosità sociale, sia per la necessità di un regime di cura o di educazione morale, o, in genere, di sociale riadattamento, che non potrebbe essere conseguito con diversi mezzi" (88).
In particolare nella relazione il Guardasigilli si sofferma sulla differenza che esiste tra pene e misure di sicurezza e riconosce che taluni hanno "obbiettato, per le misure detentive e più specialmente per l'assegnazione ad una colonia agricola o a una casa di lavoro, che anch'esse consistono nella restrizione della libertà personale, sicché, nonostante ogni differenza teorica, hanno pur sempre, in pratica, i caratteri della pena" (89). A tali critiche Rocco risponde che "la restrizione della libertà personale, unico elemento in comune con le pene detentive, non basta per conferire alle misure di sicurezza detentive il carattere di intimidazione e di sofferenza propria della pena. È in questo senso che (...) ho affermato, essere le misure di sicurezza non già, come le pene, psicologicamente, ma solo fisiologicamente coattive. Il risultato affittivo non è sempre pedissequo a qualsiasi limitazione di libertà che sia imposta per il raggiungimento di dati scopi nell'interesse sociale. Esso è soltanto eventuale; e ciò basterebbe a differenziare la misura di sicurezza dalla pena" (90).
Infine Rocco ammette una ulteriore conseguenza che potrebbe derivare dall'applicazione delle misure di sicurezza, e cioè che "taluno si astenga dal commettere un reato per timore di essere, non soltanto punito, ma assegnato ad una colonia agricola; ma questo effetto delle misure di sicurezza è estrinseco ad esse ed estraneo agli scopi che esse si propongono".
Altra importante testimonianza che ci permette di comprendere il "passaggio" dalle pene alle misure di sicurezza per quanto concerne le colonie agricole è rappresentata dalle tesi di Silvio Longhi, il quale contribuirà peraltro in modo attivo alla stesura del codice penale del 1930 (91).
Egli sostiene che le misure di sicurezza (o sanzioni preventive) sono dirette a prevenire e a proteggere interessi specifici, minacciati pro futuro e, a differenza delle pene, non debbono avere i caratteri della fissità, della determinatezza assoluta e della efficacia afflittiva (92). In particolare Longhi riconosce quattro tipologie di misure di sicurezza in base allo scopo, denominate curative, eliminatorie, riformatrici e probatorie, spiegando che:
"sono curative le misure di sicurezza che riguardano le malattie fisiche del delinquente, considerate come causa della criminalità, e sono eliminatorie quelle che riguardano la eliminazione perpetua o temporanea dei delinquenti pericolosi e insieme incorreggibili. Le misure di sicurezza riformatrici mirano, prima che alla segregazione, alla cura morale o fisica del delinquente. Esse sono specialmente adatte per gli alcolizzati e per i minori. Riguardo a quest'ultimi, si presume - e spesso la previsione fu seguita dai fatti - che ai suoi primi fatti nella vita i minori non abbiano incontrato influenza alcuna moralizzatrice; la società deve pertanto sforzarsi di sostituirgli - troppo tardi talvolta - le sue cure moralizzatrici. In fine, le misure probatorie si adattano al delinquente ritornato nella società: dalla vigilanza di pubblica sicurezza ai patronati e allatutela da parte degli enti morali, che si assumano, a scopo quello di assicurare al delinquente un ambiente sano e onesto, atto a tenerlo lontano dalla ricaduta" (93).
Longhi ritiene che all'interno delle misure di sicurezza eliminatorie debbano rientrare, oltre all'eliminazione fisica del soggetto, le colonie di relegazione destinate ai delinquenti abituali pericolosi. Egli considera le colonie come "una forma di eliminazione che pone il delinquente incorreggibile fuori della possibilità di nuocere", e ritiene del tutto superflua la questione della scelta del luogo, anche se ritiene l'isola la sede ideale, "in quanto si possa completamente trasformare in luogo di relegazione, senza altri abitanti che i condannati incorreggibili e il personale di guardia indispensabile" (94).
Le case di lavoro sono invece ritenute da Longhi gli istituti adatti per gli oziosi e per i vagabondi, coloro ai quali debbono essere applicate le misure di sicurezza riformatrici (95) (allo stesso genere appartengono gli asili di temperanza, destinai agli alcolizzati) (96).
Per capire a fondo il pensiero di Longhi, molto interessante è lo "schema di un codice della prevenzione criminale" da lui realizzato nel 1922. L'art. 5 del progetto si occupa delle colonie e degli stabilimenti di relegazione, stabilendo che
"la relegazione nelle colonie agricole e negli stabilimenti industriali si estende da cinque a dieci anni; e da cinque a venti anni nei casi di maggiore pericolosità o di seconda assegnazione. L'assegnato è obbligato al lavoro, con segregazione notturna. Egli può scegliere tra le specie di lavoro ammesse nell'istituto quella più confacente alle sue attitudini e alle precedenti sue occupazioni. Può essergli permessa una specie diversa di lavoro. Nell'istituto deve essere sviluppata, con opportuni insegnamenti, la educazione fisica morale e intellettuale dell'internato, e in particolar modo la di lui istruzione professionale, affinché sia convenientemente preparato il di lui ritorno alla vita libera. Gli internati in una colonia o in uno stabilimento di relegazione portano il costume dell'istituto e dallo stesso ricevono il vitto. Le visite e le corrispondenze epistolari sono permesse con limitazioni; e durante il riposo notturno l'internato è chiuso in cella" (97).
In seno alla commissione ministeriale incaricata di esprimersi circa il progetto preliminare di codice penale, fu affrontato il problema del coordinamento del sistema delle pene con quello delle misure di sicurezza. In particolare vennero discussi i rilievi fatti dalla Regia Università di Milano, secondo la quale era fondamentale che "la funzione delle misure di sicurezza [dovesse] essere non parallela,diversa, e indipendente da quella delle pene, ma coordinata, e anzi accessoria e subordinata" (98). A tali critiche, il presidente della commissione Appiani replica:
"1) anzitutto, che la coesistenza delle pene e delle misure di sicurezza, è una necessità inderogabile, in quanto lapericolosità non potrebbe essere contrastata unicamente con le pene, che hanno limiti prestabilititi e insuperabili di durata, o soltanto con misure di sicurezza, prive di contenuto afflittivo; 2) che la pericolosità stessa è più efficacemente contraddetta, adoperando congiuntamente mezzi diversi, quali appunto la sanzione penale, che intimidisce e soggioga la volontà, e la misura di sicurezza, che agisce come trattamento diretto a soggiogare le tendenze e le abitudini criminose; 3) che il sistema accolto nel Progetto coordina i due mezzi di lotta contro il delitto, poiché, riguardo alle persone imputabili, calcola e prestabilisce l'entità e l'indole di ciascuno dei mezzi predetti, in guisa da predisporre la possibile integrazione reciproca. Così l'abitualità e la professionalità nel reato non determinano altro aumento di pena, che quello dipendente dallarecidiva; aumento, al quale non può riconoscersi l'efficacia d'eludere la pericolosità: onde questa, dopo l'esecuzione della pena, deve presumersi non del tutto cessata e richiamare l'applicazione di una misura di sicurezza con una durata minima, che sarebbe ben più elevata, se il colpevole non subisse in precedenza il rigore di una pena (99).
Il codice penale del 1930 tratta il tema delle colonie penali in riferimento alle misure di sicurezza detentive, e l'art. 215 come prima misura di sicurezza elenca proprio "l'assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro" (100). Rocco al riguardo afferma che "la diversità profonda tra pena e misura di sicurezza dovrà riflettersi, necessariamente, nella pratica organizzazione degli istituti penitenziari e di quelli concernenti le misure di sicurezza. I primi non possono che inspirarsi a criteri di severità e rigore idonei all'attuazione di finalità repressive; i secondi debbono prescindere da tutto ciò che abbia carattere e scopo di intimidazione, mirando, con adeguati mezzi, alla rigenerazione morale e sociale delle persone pericolose. Altro carattere differenziale tra pene e misure di sicurezza è che le seconde sono provvedimenti di natura amministrativa, e, come tali, discrezionali, revocabili e, di regola, indeterminate nella durata, ossia fino al conseguimento degli scopi di custodia, di cura, di educazione, di istruzione, per i quali sono disposte" (101).
Come riporta Dworzak (102), una difficoltà che il legislatore ha dovuto affrontare, è stata il dover prevedere una regolamentazione diversa per il lavoro agricolo da svolgersi negli stabilimenti di pena oppure negli stabilimenti per l'esecuzione di misure di sicurezza. L'art. 216 si occupa specificamente dei criteri di assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro, precisando che colpiti da tale provvedimento potranno essere "coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza", anche nel caso in cui essi, "non essendo più sottoposti a misura di sicurezza, commettano un nuovo delitto non colposo, che sia nuova manifestazione della abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere", ed infine le persone che sono state "condannate o prosciolte, negli altri casi stabiliti dalla legge" (103). Al riguardo, è lo stesso codice penale che descrive in modo analitico tali figure particolari della delinquenza. Anzitutto per quanto riguarda la abitualità, essa può essere presunta dalla legge (art. 102) oppure ritenuta dal giudice (art. 103). Nel primo caso, sarà dichiarato delinquente abituale chi, "dopo essere stato condannato alla reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per tre delitti non colposi, della stessa indole, commessi entro dieci anni, e non contestualmente, riporta un'altra condanna per un delitto, non colposo, della stessa indole, e commesso entro i dieci anni successivi all'ultimo dei delitti precedenti" (104). Nella seconda ipotesi, sarà il giudice che, nel caso in cui il soggetto sia stato condannato per due delitti non colposi e riporta un'altra condanna per delitto non colposo, potrà, valutati vari fattori quali la tipologia del reato, la sua gravità, ed in genere la condotta e il modus vivendi del condannato (105), e ritenere dunque che il colpevole sia dedito al delitto (106).
Per quanto attiene invece alla professionalità, l'art. 105 prevede che colui il quale "trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, riporta condanna per un altro reato, è dichiarato delinquente, o contravventore professionale, qualora, avuto riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole (...), debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche parte soltanto, dei proventi del reato" (107). Infine l'art. 108 precisa che "è dichiarato delinquente per tendenza chi, sebbene non recidivo o delinquente abituale o professionale, commette un delitto non colposo, contro la vita o l'incolumità individuale [...], il quale [...] rilevi una speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell'indole particolarmente malvagia del colpevole" (108).
Per quanto riguarda la durata minima, l'art. 217 fissa un termine di permanenza nella colonia non minore di un anno, durata che aumenta a seconda del tipo di pericolosità attribuita al soggetto (109). Al riguardo i lavori preparatori rilevano che "il limite minimo di durata delle misure di sicurezza è determinato avendo riguardo alle diverse cause e ai particolari aspetti della pericolosità per ciascuna delle categorie di delinquenti assegnati agli stabilimenti suddetti" (110). La scelta dell'assegnazione ad una colonia agricola ovvero in una casa di lavoro, sarà effettuatala dal giudice "tenendo conto delle condizioni e attitudini della persona a cui il provvedimento si riferisce" (111) (art. 218 c.p.), fermo restando che tale scelta sarà sempre modificabile (112), anche in corso di esecuzione. Quest'ultima disposizione, come rileva anche Dworzak, è molto importante in quanto spesso solamente durante l'esecuzione si manifesta la idoneità fisica e soprattutto psichica di un individuo nello svolgere un determinato genere di lavoro oppure un determinato regime educativo (113). L'importante, come afferma nella relazione al regolamento carcerario il Ministro Guardasigilli, è che "la necessità di individuare il lavoro, a seconda delle precedenti occupazioni dell'internato e dell'ambiente in cui dovrà tornare a vivere, ha indotto a prevedere questa specializzazione (colonia agricola e casa di lavoro), che è stata oggetto della generale approvazione" (114). In realtà, nella pratica, la distinzione tra colonia penale e casa di lavoro, non è mai esistita, in quanto la maggioranza delle colonie agricole avevano lavorazioni anche diverse da quelle prettamente agricole come la pastorizia, attività industriali di vario genere come officine, laboratori artigianali etc.; al contempo le case di lavoro (in special modo quelle "all'aperto") avevano invece una impronta prevalentemente agricola (115).
Il regolamento carcerario che venne emanato nel 1931 (116), è un testo completo ed organico riguardante l'intera materia della esecuzione penale, all'interno del quale ben trentaquattro articoli (dal 266 al 291) si occupano delle misure amministrative di sicurezza detentive, dando così attuazione alle norme del codice penale (117). Ciò che si nota leggendo alcune norme del regolamento (nello specifico gli art. 260 e 261) è la volontà del legislatore di prestare attenzione ai problemi specifici degli internati (118), in particolar modo per la loro rieducazione, prevedendo a tal fine particolari disposizioni atte a tener separate le diverse categorie di internati (coloro ai quali fu applicata provvisoriamente la misura di sicurezza, oppure coloro che sono in "osservazione" in quanto soggetti a perizia psichiatrica, oltre che ovviamente per le internate di sesso femminile (119) ed i minori).
Per quanto riguarda il lavoro (120), la disposizione dell'art. 271 è categorica nel prevedere che esso è funzionale allo scopo di "riadattamento degli internati alla vita sociale", cercando di tenere presenti nella scelta del lavoro le specifiche attitudini e le prospettive che egli presumibilmente avrà una volta riottenuta la libertà (121). Per ciò che riguarda il compenso, il lavoro prestato all'interno degli stabilimenti è sempre remunerato, secondo precisi criteri fissati dall'ordinamento (122); in particolare l'art. 275 prevede un "fondo degli internati", composto a sua volta dal "fondo particolare" e dal "fondo di lavoro". Il primo è costituito dal denaro che l'internato possedeva già al suo ingresso nello stabilimento (oltre alla vendita di oggetti di sua proprietà o altri valori inviati dalla propria famiglia). Il "fondo di lavoro" si compone invece delle quote spettanti all'internato rispetto alla remunerazione di cui egli ha diritto in virtù del lavoro svolto.
Come si può notare, nella intenzione del legislatore, traspare in talune norme una concezione particolare dell'internato tale da differenziarlo dal "comune" detenuto; si intravede cioè una visione quasi "paternalistica" dello Stato, che in questo caso più che altrove si preoccupa della gestione degli internati in modo pressoché "protettivo ed avvolgente", tipica del pensiero ottocentesco delle colonie penali. In particolare emerge la figura del direttore che, nella concezione della colonia come di una "grande famiglia", rappresenta per gli internati la figura di "un padre amorevole", che attraverso la concessione di benefici e la possibilità di lavorare, educa i propri figli a ritornare nella società che un tempo ebbero offesa. Ovviamente affinché questo progetto di rieducazione potesse effettivamente funzionare, fu previsto un sistema di punizioni, tese a controbilanciare i benefici e i vantaggi soprattutto quelli derivanti dal lavoro (123).
In sostanza, il legislatore nel prevedere le colonie penali agricole come istituti destinati a coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza recupera quella concezione, tipica degli studiosi della seconda metà dell'Ottocento (Peri), secondo la quale la colonia doveva costituire uno "stato intermedio" tra detenzione e libertà.
Inoltre è importante accennare a quella parte del regolamento che si occupa del lavoro, la quale, benché riferita ai detenuti, ha importanti risvolti anche per gli internati. L'articolo 115 definisce "lavoro all'aperto" quello che "si esegue fuori dalla cinta muraria dello stabilimento", facendo venir meno la precedente disputa se in tale definizione dovessero rientrare o meno i lavori svolti "sotto la volta del cielo" (124), ma entro la cinta muraria dell'istituto (es. la coltivazione dell'orto del carcere, lavori nei cortili etc.). Secondo l'art. 117, il lavoro dei detenuti, quando si svolga esternamente, può essere organizzato nelle case di lavoro all'aperto oppure attraverso "colonne mobili di detenuti", i quali escono dall'istituto per lavorare, e vi rientrano la sera alla fine del lavoro (125). Il successivo art. 118 prevede quali siano gli scopi del lavoro all'aperto, quando i detenuti siano assegnati ai lavori agricoli, di bonifica o di dissodamento (126), prevedendo in particolare che "l'organizzazione dei servizi deve avere per fine la progressiva e graduale cessione dei terreni, migliorati, ai lavoratori liberi, nei modi di legge" (127). La cosa interessante è che alcune colonie agricole, col tempo si trasformarono in case di lavoro all'aperto per detenuti, mantenendo però sempre una "sezione per internati" (128).
Infine è interessante riportare il pensiero di D'Amelio, presidente della commissione parlamentare chiamata a dare il proprio parere sul progetto definitivo del codice penale. Egli afferma che la nuova regolamentazione sulle misure di sicurezza rappresenta non tanto la conciliazione delle due scuole di pensiero italiane (classica e positiva), quanto il loro superamento. Così, afferma D'Amelio,
"mentre è rimasto fermo ed intangibile il duplice concetto della scuola classica o tradizionale, che esclude la natura di pena dalle misure di sicurezza e ritiene che queste possono applicarsi soltanto alle persone pericolose, che già abbiano commesso un reato, ha conseguito pieno successo il duplice canone della scuola positiva, e cioè che le misure di sicurezza debbono trovare posto nel codice penale ed essere applicate per opera del giudice. Sul terreno della vita pratica, i principi delle due scuole si sono facilmente incontrati e coordinati" (129).
Concludendo, per quanto riguarda il lavoro all'aperto, nelle discussioni preparatorie al codice penale, si evince che l'assegnazione viene disposta in base alla valutazione di elementi soggettivi del condannato, come per esempio le abitudini di vita e le tendenze al lavoro. Tale attività lavorativa all'esterno è vista favorevolmente anche quando venga applicata agli ergastolani, in quanto, se viene accompagnata ad un regime severo di sorveglianza e a "lavori non lievi (ad es., dissodamento o bonifica), impedisce gli effetti deleteri della pena perpetua, senza distruggere o attenuare il carattere di afflittività, che ad essa è inerente". Sempre nei lavori preparatori, vengono riportate le opinioni contrarie all'applicazione del lavoro all'aperto, in particolare il timore che esso renda la pena troppo mite e che per le difficoltà di sorveglianza faciliti le evasioni. In realtà viene osservato che la maggioranza dei lavori agricoli attribuiscono un carattere alla pena non di mitezza ma al contrario di severità, in considerazione delle difficoltà pratiche della bonifica e del dissodamento di terreni talvolta anche malarici (130).

1.5 I mutamenti apportati dall'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e la riforma penitenziaria del 1975

L'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, se per un verso è stato un evento fondamentale sotto molti aspetti della vita politica, economica, sociale e giuridica del Paese, non ha avuto effetti diretti sull'ordinamento e sul funzionamento delle colonie penali agricole. Un aspetto però basilare, che certamente viene ad essere modificato dopo l'entrata in vigore della costituzione, è la concezione del lavoro carcerario, tema strettamente legato all'istituto delle colonie penali. Laddove, infatti, all'art. 272 Cost., viene esplicitamente detto che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", c'è un riferimento necessario anche al lavoro, in quanto esso è parte o complemento necessario della pena detentiva, con la conseguenza che anche il lavoro dovrà avere quei caratteri di umanità e di risocializzazione dettati dal testo costituzionale (131). In ogni tipologia di istituto penitenziario il lavoro dei detenuti dovrà "essere letto" sotto questa nuova luce, abbandonando ogni retaggio del passato che vedeva il lavoro solo come affittivo e punitivo.
A queste innovazioni sul piano costituzionale, non fece seguito alcuna modifica concreta, e le norme sull'ordinamento carcerario continuarono ad essere quelle del 1931 (132), norme che mal si conciliavano con il mutato clima politico e sociale di cui erano espressione i nuovi principi costituzionali.
Alcune norme riguardanti proprio le colonie penali furono sottoposte al giudizio della Corte Costituzionale affinché fosse verificata la loro legittimità in tal senso. In particolare la Corte respinse (133) l'ipotesi avanzata circa la inidoneità della colonia penale agricola e della casa di lavoro a svolgere la funzione rieducativa degli internati, con la motivazione che le carenze e le disfunzioni che caratterizzano una norma nella sua concreta attuazione non possono avere efficacia nel giudizio di costituzionalità (134).
Per quanto riguarda la Toscana, uno schema di sintesi, redatto da Dott. De Santis (135), riguardante gli istituti per le misure di sicurezza detentiva è il seguente (136):
PIANOSA
Caratteristiche climatiche e ambientali. È adibita a istituto per le misure di sicurezza la diramazione "centrale". L'ambiente edilizio è tetro, squallido, non funzionale. Le caratteristiche climatiche sono quelle comuni alle isole: caldo intenso di estate, inverni poco rigidi, estrema variabilità atmosferica, tasso piuttosto elevato di umidità.
Struttura edilizia. Il reparto è suddiviso in camere e camerotti:
n 1 per 1 posto letto
n 4 per 2 posto letto
n 10 per 3 posto letto
n 5 per 4 posto letto
n 25 per 5 posto letto
n 1 per 6 posto letto
n 1 per 7 posto letto
Le celle di isolamento, ubicate in un reparto autonomo, sono comuni agli internati e ai detenuti. Non esiste impianto di riscaldamento.
Capienza. La capienza è di 197 unità.
Presenze. La presenza media giornaliera dal I gennaio 1971 al 31 ottobre u.s. è stata di 104 internati.
Situazione ed organico del personale civile e militare. L'organico del personale militare per tutto il complesso degli istituti carcerari della Pianosa è il seguente: 10 sottufficiali e 177 agenti. I militari disponibili sono 6 sottufficiali e 169 agenti. Si conosce l'organico ufficiale del personale civile. Al presente figurano in servizio presso gli stabilimenti carcerari di Pianosa:
1 direttore
1 ragioniere
1 cappellano
1 sanitario
1 archivista con funzioni di agronomo
4 operai
Tipo di lavorazioni. L'attività lavorativa principale è la coltivazione dei campi e l'allevamento del bestiame; tutte le rimanenti sono da considerare accessorie alla suddetta.
Non sembra che l'ambiente circoscritto dell'isola e l'isolamento geografico, affettivo e sociale, in cui vivono, sia giovevole al recupero degli internati.
CAPRAIA
Caratteristiche climatiche e ambientali. È destinato a reparto per gli internati la diramazione porto vecchio. Il clima e l'ambiente è simile a quello di Pianosa.
Struttura edilizia. Consta di un unico fabbricato suddiviso in due cameroni e servizi vari. Non dispone di celle di isolamento autonome, né di impianto di riscaldamento.
Capienza. La capienza è di 46 unità
Presenze. Le presenze giornaliere medie, dal I gennaio al 31 ottobre 1971, sono state di 28 unità.
Situazione e organico del personale civile e militare. L'organico del personale militare per tutto il complesso degli istituti carcerari di Capraia è il seguente: 8 sottufficiali e 70 agenti. I militari disponibili sono 7 sottufficiali e 63 agenti. La direzione della casa di lavoro all'aperto di Capraia non ha saputo fornire notizie circa l'organico ufficiale del personale civile; al presente figurano i servizio:
1 direttore
1 applicato
1 cappellano
3 operai
Tipo di lavorazioni. L'attività lavorativa principale è la coltivazione dei campi e l'allevamento del bestiame. Per quanto concerne l'opportunità di custodire internati in una isola, valgono le considerazioni formulate per l'analoga situazione di Pianosa.
PORTO AZZURRO
Caratteristiche climatiche e ambientali. Un reparto dell'istituto è adibito a sezione di rigore per internati; il clima è umido, ventoso e temperato; l'istituto sorge in una isola piuttosto popolata e centro attivissimo di turismo.
Struttura edilizia. In attesa di una definitiva sistemazione di un apposito reparto, che verrà convenientemente ristrutturato, attualmente la sezione di casa di rigore per internati è ubicata nella zona più appartata dell'istituto (14ª sezione - 3º reparto) ed è costituita da 10 camerotti, che possono ospitare due internati ciascuno, come capienza massima. Le celle di isolamento sono le stesse che vengono usate anche per i reclusi. In questi giorni è iniziata l'installazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato; si presume che entro la fine dell'anno tutto l'istituto, e quindi anche la sezione della casa di rigore, sarà riscaldata con termosifoni.
Capienza. La capienza è di 20 unità.
Presenze. Le presenze medie giornaliere degli internati assegnati alla casa di rigore dal 1/1/1971 al 31/10/1971 sono state n. 16.
Situazione e organico del personale civile e militare. L'organico del personale militare per tutto il complesso carcerario di Porto Azzurro è il seguente: 9 sottufficiali e 148 agenti. I militari disponibili sono 7 sottufficiali e 132 agenti. Non si posseggono dati precisi relativamente all'organico del personale civile. Sono in forza al presente:
1 direttore
2 ragionieri
1 cappellano
2 sanitari
2 operai
Il personale civile e militare, di cui sopra, svolge la propria opera per tutto il complesso carcerario.
Tipo di lavorazioni. Gli internati, dopo un primo periodo di isolamento e di osservazione, possono trovare occupazione in una delle officine dell'istituto.
PISA
Caratteristiche climatiche e ambientali. L'istituto dispone di due sezioni per internati minorati fisici e sorge in una zona prossima al mare, con clima temperato.
Struttura edilizia. Una delle sezioni è a sistema cunicolare con 95 celle, l'altra si compone di 7 celle monoposto e di 5 camerotti di 5-6 posti ognuno. Il reparto non dispone di celle di isolamento autonome. Esiste l'impianto di riscaldamento solo nella seconda delle suddette sezioni.
Capienza. La capienza della sezione cunicolare è di 95 posti; l'altra può ospitare 45 unità.
Presenze. La presenza media giornaliera dal I gennaio al 31 ottobre 1971 è stata di 58 internati.
Situazione ed organico del personale civile e militare. L'organico del personale militare per tutto lo stabilimento è il seguente: 6 sottufficiali e 79 agenti. I militari disponibili sono 6 sottufficiali e 77 agenti. Non si è in grado di precisare l'organico del personale civile. Attualmente prestano la loro opera per il complesso degli istituti carcerari di Pisa:
1 direttore
1 ragioniere
1 cappellano
3 sanitari
2 operai
Tipo di lavorazioni. Non esistono lavorazioni per gli internati, anche perché trattasi di minorati fisici. Con lettera n. 19700 del 5 corrente ho inoltrato alcune proposte concernenti una migliore strutturazione del reparto in argomento.
Finalmente nel 1975 (137) venne approvato il nuovo ordinamento penitenziario (138), il quale è un testo che, a differenza dei precedenti, è molto organico e ben strutturato, e ha contribuito a modificare quella tendenza presente fin dal dopoguerra di concentrare tutte le problematiche dell'ambito penale "esclusivamente sugli aspetti teorici e sistematici a scapito di quelli riguardante la concreta operatività sociale" (139). Anzitutto viene meno quella rigida distinzione normativa tra detenuti ed internati, riguardando la maggioranza degli articoli entrambe le categorie predette. Gli istituti per adulti vengono divisi in quattro categorie, e cioè: 1) istituti di custodia preventiva; 2) istituti per l'esecuzione delle pene; 3) istituti per l'esecuzione delle misure di sicurezza; 4) centri di osservazione (art. 59). Fra gli istituti per l'esecuzione di misure di sicurezza detentive, vengono nominate, oltre agli ospedali psichiatrici giudiziali, alle case di cura e custodia e alle case di lavoro, le colonie agricole, con l'aggiunta che possono essere istituite delle "sezioni per l'esecuzione della misura di sicurezza della colonia agricola presso una casa di lavoro e viceversa", oltre che anche delle "sezioni per l'esecuzione delle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro presso le case di reclusione" (art. 62). Queste sono le uniche norme dell'ordinamento penitenziario riguardante direttamente le colonie agricole, e di conseguenza, come si evince facilmente, almeno sotto l'aspetto della organizzazione e inquadramento normativo, non cambia niente rispetto al passato, essendo le colonie sempre destinate a coloro i quali sono stati colpiti da una misura di sicurezza. L'unica grossa novità, riguarda la possibilità di creare delle "sezioni per internati" presso delle case di reclusione "ordinarie", facendo di fatto cadere la distinzione della finalità degli istituti presente originariamente. Questo ha portato col tempo alla graduale trasformazione delle colonie agricole in "case di reclusione", dotate però di una o più sezioni in cui ospitare gli internati. Tutto ciò ha permesso di allargare i benefici e vantaggi che le colonie penali avevano anche ai detenuti, in primis la possibilità di lavorare all'aria aperta ed essere liberi durante tutto il giorno.
Prospetto relativo alla capienza ed alle presenze dei detenuti (140)
capienza maxcapienza ottimaledetenuti presentiposti infermerianote
Capraia150130155
Gorgona181812alcune sezioni sono state dichiarate inagibili dal Genio Civile
Pianosa64760065628
Bisogna non di meno aggiungere che con la legge 10 ottobre 1986, n. 663 viene abrogato l'art. 204 c.p. riguardante l'accertamento della pericolosità sociale presunta, in quanto con l'art. 312 della stessa legge viene previsto che "tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate, previo accertamento che colui che ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa", venendo meno quindi al riguardo ogni presunzione di legge. In altre parole gli articoli 21 e 31 di tale legge (detta "Simeone") (141), prevedono che l'assegnazione ad una colonia agricola - casa di lavoro può essere disposta solamente se sia stata accertata in concreto dal giudice di merito la pericolosità sociale ex art. 203 c.p., sempre secondo le circostanze previste dall'art. 133 codice penale (142). Inoltre, altra importante conseguenza di questa legge, è il fatto di dover ritenere ormai sorpassata l'ipotesi prevista dall'articolo 217 c.p. riguardante la durata di tempo minima per l'assegnazione ad una colonia penale o casa di lavoro; tutto a causa proprio del fatto che adesso è l'accertamento in concreto della pericolosità sociale l'unico parametro disponibile da utilizzare per stabilire la tipologia e durata delle misure di sicurezza, anche in relazione alle forme di pericolosità qualificata (143).
Infine un accenno deve essere fatto alle numerosissime circolari ministeriali (144) che sono state emanate negli ultimi anni sul tema del lavoro agricolo. Significativa è la circolare n. 2706/5159 del 19 luglio 1980 avente ad oggetto dei sussidi economici per le attività ergoterapiche (145). Viene esplicitamente detto che l'ergoterapia è considerata come un trattamento curativo, per cui essa "è finalizzata, unitamente alle altre terapie, al recupero parziale o totale delle capacità intellettive e lavorative del soggetto", pertanto il sussidio deve essere "un valido stimolo all'applicazione del lavoro e al miglioramento del rendimento, i quali contribuiscono, molto spesso in modo pregnante, a rinsaldare nell'individuo infermo il senso della propria dignità". Tutto ciò, pur non riguardando direttamente gli internati delle colonie penali agricole ma solo coloro affetti da infermità mentale, mostra come il lavoro venga in questo caso considerato quale vera e propria "terapia psichiatrica" che consiste nel cercare di rieducare i soggetti ad una vita sociale attraverso lo svolgimento di attività produttive, che nella maggior parte saranno di tipo agricolo.
Molto importante è anche la circolare n. 2906/5356 del 7 dicembre 1982, la quale ha per oggetto l'ammissione al lavoro all'esterno dei detenuti e degli internati. Tale circolare si rese necessaria per ovviare a talune erronee interpretazioni circa l'ammissione al lavoro all'esterno; in particolare si voleva sottolineare che tale misura non era e non doveva essere considerata come un "surrogato" della semilibertà.
Il regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario del 1976 (146), prevedeva che l'ammissione all'aperto poteva essere disposta solamente quando tale misura fosse stata inserita nel programma elaborato dal gruppo di osservazione e trattamento dell'istituto dove il soggetto si trovava. La circolare aggiungeva inoltre che è "quantomeno opportuno che il suddetto gruppo si riunisca periodicamente nel corso dell'esecuzione della misura per valutarne i risultati parziali". Il programma di trattamento dovrà quindi essere trasmesso al magistrato di sorveglianza (nel caso di imputati sarà sufficiente l'assenso dell'autorità giudiziaria competente), il quale se non riscontra violazioni di legge, lo approverà con il suo ordine di servizio (art. 69 legge 345/75).
Un ruolo importante è assunto dal direttore dell'istituto, in quanto è di sua esclusiva competenza l'ammissione o meno del soggetto al lavoro all'aperto; egli, infatti, nell'emettere il suo provvedimento, dovrà necessariamente attenersi agli elementi e condizioni di ammissibilità posti in rilievo nel programma di trattamento elaborato dall'équipe, ma egli è autonomo nella scelta, in quanto si avvarrà di fatti che soltanto lui, in relazione alle esigenze del segreto d'ufficio, conosce (147).
Per quanto concerne le prescrizioni da osservare nella esecuzione del lavoro all'esterno, esse dovranno essere allegate al provvedimento del direttore e firmate dall'interessato per accettazione. Fra le prescrizioni più importanti, saranno da menzionare l'orario di lavoro, il mezzo di trasporto da usare e il tempo presumibilmente necessario a compiere il tragitto istituto - posto di lavoro e viceversa, il luogo dove l'interessato consumerà il pranzo, la denominazione della ditta e il settore dove essa opera, il nome dell'imprenditore, l'indirizzo del posto di lavoro e infine le mansioni affidate al soggetto (148). In conclusione la direzione dovrà sempre verificare che sul posto di lavoro del detenuto o dell'internato sia assicurato il rispetto dei suoi diritti e della sua dignità, per far sì che non sia presente alcuna forma di sfruttamento (149).
Infine l'ultimo intervento legislativo in ordine cronologico che riguarda le colonie agricole è il regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario del 2000 (150). L'art. 50 ricalca in modo pressoché identico l'art. 48 del precedente regolamento di esecuzione del 1976 (151), e a proposito dell'obbligo del lavoro dispone che "i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, che non siano stati ammessi al regime di semilibertà o al lavoro all'esterno o non siano stati autorizzati a svolgere attività artigianali, intellettuali o artistiche o lavoro a domicilio, per i quali non sia disponibile un lavoro rispondente ai criteri indicati nel sesto comma dell'articolo 20 della legge, sono tenuti a svolgere un'altra attività lavorativa tra quelle organizzate nell'istituto" (152).ncia sperimentò, sotto alcuni aspetti, delle colonie appartenenti a questo secondo modello, ma solo quelle per minorenni si trovavano all'interno del territorio naturale francese, mentre quelle per adulti si ebbero sostanzialmente in Guyana e in Nuova Caledonia, assumendo però caratteristiche prevalenti di stabilimenti agricoli, piuttosto che luoghi di deportazione tipici del modello inglese.

                                                           Capitolo III

Isole - carcere

1 Motivi che hanno determinato la progressiva chiusura delle colonie. L'esperienza dell'isola di Gorgona

Col passare del tempo, gli istituti penitenziari presenti sulle isole sono stati progressivamente chiusi. Per quanto riguarda la realtà toscana, la casa di lavoro all'aperto di Capraia è stata chiusa col decreto del Ministero di Grazia e Giustizia del 27 ottobre 1986, mentre l'istituto di Pianosa è stato definitivamente soppresso con la legge del 23 dicembre 1996 n. 652; nell'isola di Gorgona, invece, a tutt'oggi è presente una casa di reclusione.
I motivi principali che hanno determinato la chiusura di questi stabilimenti vanno ricercati nelle maggiori difficoltà di gestione legate alle realtà isolane. Anzitutto da menzionare è il problema dei colloqui, resi estremamente incerti e dispendiosi per le famiglie dei detenuti, che spesso dovevano affrontare lunghi e costosi viaggi per poter parlare con i propri familiari (1). Problemi di natura simile doveva affrontare anche il personale civile e di custodia degli stabilimenti, il quale era spesso costretto a trasferirsi sull'isola con l'intera famiglia, dovendo affrontare numerosi disagi quali la mancanza di servizi (scuola, ospedale, negozi di generi di conforto...) (2), difficoltà di collegamento con la terraferma etc. Come afferma il Dott. Ciccotti
"[il personale militare viveva in] un notevole stato di disagio e di abbandono, privo di possibilità di comunicazione fuori l'ambiente carcerario. Le giovani leve che giungevano in isola, dopo poco tempo di contatto con l'ambiente, già assorbivano gli aspetti più deteriorati e negativi. [...] Il disagio dell'isola, con la compressione che esercita sui più umani desideri e logiche necessità, è sentito in maniera così intensa e determinante da tutto il personale civile e militare da condizionare il loro umore, l'ansia, l'aggressività e tutto il comportamento e, quindi, conseguentemente il servizio da esso espletato. A volte sembra percepire che 'il ristretto' sia proprio il personale, perché forse in maniera più intensa sente il sacrificio della lontananza dal continente, in quanto non riesce ad avere adeguate compensazioni di continue frustrazioni che l'isolamento comporta.[...] Tutti desiderano abbreviare la loro permanenza sull'isola, e quando non riescono a realizzare ciò attendono con impazienza il loro turno di avvicendamento che avviene, di solito, dopo due anni. Per questo motivo è difficile avere il personale specializzato nei vari servizi. Quando a fatica si è riusciti a specializzarne qualcuno in qualche specifico settore, ecco che giunge il suo turno di avvicendamento.[...] Il personale con la famiglia deve inoltre affrontare il grave problema degli alloggi che in questa isola sono scarsissimi, ed i pochi disponibili sono angusti, vecchi e antigenici ed inoltre il loro canone di affitto è elevatissimo (...). I loro figli non crescono in un sano ambiente perché trascorrono molte ore del tempo libero e quelle della scuola, assieme ai figli di ex detenuti, qui residenti, molti dei quali mostrano evidenti segni di disadattamento e anomalie della personalità. Le scuole, inoltre, non funzionano regolarmente perché anche gli insegnanti ad esse preposti non rimangono a lungo in questa sede. [...] Per molti agenti non sposati, invece, si affaccia vivo e pressante il problema sessuale, specialmente per i meno dotati intellettualmente, i quali non riuscendo a sublimare i propri istinti e quindi a trovare compensazioni, condizionano la vita di relazione della collettività isolana; infatti questa molto spesso è turbata, specie nell'intimità familiare, da dissidi e conflitti originati da comportamenti, più o meno nascosti, pienamente immorali" (3).
Anche la situazione dei costi di gestione ha influito sulla scelta di chiudere gli stabilimenti nelle isole. L'istituto di Capraia, per esempio, durante il 1969 registrava circa 32.627.000 Lire di entrate economiche (energia elettrica prodotta anche per il Comune, vendita di prodotti agricoli etc.) e ben 228.439.000 Lire di spese. Su tutto gravavano anche i trasporti marittimi che influivano per circa il 20% sulla merce trasportata (4).
Secondo l'indagine di Ciccotti, i motivi che sono alla base della chiusura degli istituti sulle isole possono essere così riassunti:
  1. Prevalenza di lavori manuali ormai superati e non accettati;
  2. Scarsissime possibilità di fornire specializzazioni lavorative moderne, idonee per un migliore inserimento del detenuto nella società;
  3. Notevole lontananza del detenuto dalla famiglia che determina in lui maggiore senso di abbandono;
  4. Difficoltà, causata dal frazionamento dell'istituto in diramazioni, con la conseguente mancanza di una unità di indirizzo, di un efficace controllo, di una migliore conoscenza dei singoli, necessaria per l'impostazione di un valido rapporto;
  5. Mancanza di disponibilità di un personale psicologicamente disteso, qualificato e che a lungo rimanga in sede;
  6. Costo di esercizio molto elevato.
Oltre a ciò va evidenziato come alcuni istituti, ad esempio quello di Capraia, si trovassero in condizioni pessime. Una testimonianza ci è fornita dalla lettera nella quale il dottor De Vizia, direttore della casa di reclusione di Capraia (5), descrive le quattro diramazioni dell'istituto (Centrale, Aghiale, Ovile e Porto Vecchio - Stalla Vecchia, Mortola e Porto risultano abbandonate) e presenta una situazione molto critica. Nel lungo e dettagliato elenco viene evidenziato il pessimo stato di conservazione delle strutture ospitanti i detenuti, gli agenti di custodia e il personale direttivo e amministrativo. Innanzi tutto si lamenta la mancanza di un adeguato e funzionale impianto di riscaldamento (in pratica vengono utilizzate antigieniche stufe a carbone), di elettrodomestici per la cucina (quelli esistenti sono fuori uso), di telefoni nelle diramazioni e nelle caserme, di servizi igienici decorosi nelle caserme agenti. Viene inoltre lamentata la difficoltà di comunicazione tra le varie diramazioni per la pessima condizione delle strade esistenti. Numerose le opere in muratura da realizzare secondo il direttore, il quale pone l'accento sulla necessità di rendere più decorose le caserme, così da invogliare gli agenti a restare sull'isola. Anche gli uffici risultano in pessime condizioni (alcuni addirittura pericolanti), mancano locali per i magistrati, una foresteria, una sala avvocati e una per gli ufficiali del corpo AACC. Nella relazione si mette inoltre in evidenza il pessimo stato della lavanderia, la scarsità di segnali di allarme e l'insufficiente illuminazione. Anche la naturale vocazione lavorativa della casa di lavoro viene, secondo lo scrivente, disattesa a causa della mancanza o della scarsa efficienza di moltissimi utensili necessari alle varie lavorazioni presenti nell'istituto. La stessa chiesa della colonia è inagibile, dunque il cappellano si deve recare in ogni diramazione con un altare portatile. Insufficiente per i motivi sanitari appare anche l'unica sala ambulatorio, e mancano locali per degenti. In pessimo stato risultano infine gli unici alloggi di servizio, destinati al direttore e al maresciallo, anch'essi privi di riscaldamento.
Inoltre, vi era anche da parte dell'amministrazione penitenziaria la consapevolezza che i principali presupposti che suggerirono le isole come luogo di pena (sicurezza, allontanamento del detenuto dal continente, lavoro di dissodamento agricolo etc.) erano venuti a mancare. A tutto ciò bisogna aggiungere che sia Capraia sia Pianosa sono due isole con una spiccata vocazione turistica, e la presenza di istituti penali certamente non favorisce lo sviluppo di tale settore. Forti dunque sono state le pressioni di enti pubblici (amministrazioni comunali, enti per il turismo etc.) e privati per la loro chiusura (6).
Come abbiamo detto unica eccezione in Toscana riguarda l'isola di Gorgona, nel Comune di Livorno, sede di una casa di reclusione. Tale istituto è molto interessante, non solo perché si tratta di un'isola esclusivamente penitenziaria (in quanto il personale civile è composto solamente dalle famiglie degli agenti e da pochi pescatori locali), ma anche perché si differenzia nettamente dal punto di vista strutturale e architettonico dalle altre carceri "chiuse" presenti nel continente.
A tal proposito merita attenzione l'articolo di Sonia Paone (7), nel quale viene evidenziato come "il carcere è pensato e organizzato in relazione al fine che la pena persegue. Pertanto lo studio degli spazi carcerari diviene un'importante prospettiva dalla quale guardare diacronicamente la storia dell'ideologia carceraria, e far emergere il passaggio dalla sua prima funzione rieducativa e meramente contenitiva a quella moderna di risocializzazione". Tutto questo è particolarmente significativo se riferito a Gorgona, dove esistono delle strutture carcerarie costruite in epoca diversa e inoltre, il fatto che si tratti di un'isola, aggiunge una particolarità non riscontrabile altrove.
Del suo passato come colonia agricola, ritroviamo la suddivisione dell'istituto di Gorgona in diramazioni, ognuna delle quali è praticamente autosufficiente, disponendo di un refettorio, una cucina, una sala hobby, una sala musica, un campetto di bocce e uno datennis (8); inoltre, il fatto che le diramazioni siano prive di imponenti mura di recinzione, fa sì che a Gorgona manchi quel senso di oppressione tipico di strutture carcerarie.
Le diramazioni di costruzione più recente, si trovano nei pressi del piccolo villaggio, mentre quelle ottocentesche sono ubicate sulle alture dell'isola. Tutto questo denota diverse forme di progettualità del carcere, ispirata, nell'epoca più recente, a volontà di risocializzazione ed integrazione che si realizza anche con una vicinanza "fisica" tra strutture detentive e contesto urbano (9).
La vita sull'isola è regolata in base alle esigenze lavorative, ed anche i detenuti vengono assegnati a tale istituto seguendo criteri particolari. Come prima condizione essi devono avere una condanna definitiva, e il residuo di pena non deve essere superiore a dieci anni. Per motivi di sicurezza, non possono essere ospitati i detenuti per reati di tipo mafioso e neppure coloro che abbiano compiuto reati sessuali. Nella scelta vengo preferiti i condannati con determinate competenze lavorative, ed in generale è richiesta la buona condotta durante il periodo di detenzione precedente (in sostanza che non ci siano state sanzioni disciplinari negli ultimi due anni) (10).
Il lavoro può essere considerato il perno attorno al quale gira tutta l'organizzazione del carcere. Soprattutto negli ultimi anni sono aumentate le attività presenti nell'isola, ed all'agricoltura, all'edilizia ed alla zootecnia si è aggiunta nel 2001 un'attività di acquicoltura. Sono stati ristrutturati degli edifici presenti a Cala Scirocco, nella parte sud orientale dell'isola, ed è stato creato il Laboratorio di Biologia Marina e Maricoltura (LaBIMM), il quale oltre a svolgere attività di ricerca, è dotato di un'unità d'allevamento larvale e pre - ingrasso, che fornisce avannotti di specie pregiate (orate, spigole, ombrine), che saranno poi collocate sul mercato esterno per la vendita (oltre una piccola parte che viene naturalmente destinata al consumo interno) (11). L'allevamento vero e proprio dei pesci avviene in gabbie off shore situate nella Cala Bellavista, e tutto ciò è accompagnato da corsi che forniscono ai detenuti la competenza necessaria per portare avanti il progetto (12).
Oltre a ciò è presente l'agricoltura e, benché il territorio sia totalmente montuoso, molte sono le attività che negli anni sono state realizzate. Anzitutto vengono coltivati alcuni vitigni autoctoni (Sangiovese, Fermentino, Trebbiano, Verdello e Ansonica) per circa due ettari, ed è inoltre presente una cantina di vinificazione. Importante è anche il settore zootecnico e caseario, in cui vengono allevati bovini, suini, ovi-caprini, conigli e volatili, tutti rigorosamente curati con rimedi omeopatici. Il caseificio produce due tipologie di formaggi, la provola di latte e il pecorino.
Per quanto riguarda l'agricoltura, vengono coltivati numerosi ortaggi, tutti destinati al consumo interno, mentre dal 1998 è iniziata la coltivazione di piante aromatiche (salvia comune, rosmarino, origano, maggiorana, santoreggia, timo) riqualificando gli antichi terrazzamenti presenti sull'isola. Le oltre mille piante di olivo producano una quantità di circa 10000 litri annui di olio (13).
Le altre attività lavorative presenti sull'isola, nelle quali sono impegnati i detenuti, riguardano l'edilizia, grazie alla quale sono stati ristrutturati e riadattati molti vecchi edifici, le officine meccaniche ed elettriche e una carpenteria per le esigenze interne. L'isola è autonoma anche per quanto riguarda la realizzazione di opere lignee, la panificazione, la raccolta e trattamento differenziato di rifiuti (esistono impianti di fito - depurazione dei liquami prima di essere scaricati in mare). Infine bisogna ricordare che alcuni detenuti sono impegnati nel gestire l'impianto di produzione dell'energia elettrica, nella pesca e, negli ultimi anni, in attività legate al turismo didattico riguardante l'ambiente naturale dell'isola (14).
La giornata "tipo" dei detenuti prevede la sveglia alle ore 6.30 e, dopo la colazione, alle 7.30 inizia il turno lavorativo fino a mezzogiorno per la pausa pranzo. Il turno pomeridiano è dalle 14.00 alle 16.00. La restante parte della giornata viene impiegata per l'attività scolastica oppure per il tempo libero (è presente una biblioteca, una palestra, un campo da calcetto). Come sottolinea l'ex direttore Mazzerbo in una recente intervista (15), a Gorgona, unico esempio in tutta Europa, tutti i detenuti lavorano, e "il lavoro quotidiano, oltre ad avere un effetto positivo sulla riduzione dei costi da parte della stessa amministrazione, costituisce il primo mezzo di recupero e di reinserimento dei detenuti stessi".
L'istituto di Gorgona è dunque definibile "un istituto a trattamento avanzato", sia perché, come detto, il lavoro costituisce l'elemento cruciale e fondamentale del trattamento stesso, ma anche per "l'acquisizione di una capacità professionale da utilizzare sul momento ma soprattutto per l'acquisizione del lavoro come valore portante del proprio vivere, attraverso il quale acquistare dignità, autosufficienza, autostima, e, non ultimo e di grande importanza, essere d'aiuto economico ai propri familiari" (16).
Il fatto che la popolazione carceraria sia composta di detenuti con basso indice di pericolosità, ha favorito la creazione di un positivo modello di convivenza, il quale è spesso difficilmente riscontrabile nella società libera (17). Tutto questo favorisce, a differenza delle carceri "chiuse", la conoscenza dei detenuti, che possono essere osservati nel loro modo di lavorare, di interagire con i compagni e con gli agenti di polizia (18).
Ovviamente anche il carcere di Gorgona non è immune da problemi e difficoltà da affrontare quotidianamente. Innanzitutto la lontananza dalla terra ferma comporta numerosi disagi per tutta la popolazione (detenuta e non), inoltre i collegamenti marittimi per Livorno non sono sempre possibili causa le avverse condizioni del mare. Questo comporta che l'isolamento sia più marcato che altrove, e molti disagi sono sopportati anche dal personale di polizia penitenziaria. Per molti di loro essere assegnati a Gorgona, comporta un grande disagio, soprattutto per quanto riguarda i rapporti familiari. Inoltre sull'isola, essendo presente la sola realtà penitenziaria, manca tutta una serie di servizi e di comodità presenti invece sulla terra ferma. Solo parzialmente tutto ciò è compensato dal fatto di prestare servizio all'aria aperta e a stretto contatto con la natura, situazione difficilmente realizzabile altrove. Mazzerbo è quindi dell'idea che il personale di polizia penitenziaria di Gorgona dovrebbe essere scelto solamente su base volontaria, per evitare i profondi disagi che potrebbero nascere da una permanenza forzata (19). Detto questo molti sono gli agenti di polizia che hanno deciso di stabilirsi anche con la propria famiglia sull'isola, preferendo il tipo di vita all'aperto e i particolari rapporti umani (anche con la popolazione detenuta) presenti a Gorgona (20).

2 L'utilizzo delle colonie come "istituti di massima sicurezza" durante le emergenze legate al terrorismo e alla mafia

2.1 La nascita degli istituti di massima sicurezza

Gli anni Settanta del secolo scorso, sono caratterizzati da una forte conflittualità a livello politico e sociale, e il sistema carcerario non rimane estraneo a tutto ciò. Nel 1975, con il nuovo regolamento penitenziario (21), come abbiamo visto nel capitolo precedente, si cerca di cancellare il grande divario che sino allora era stato presente tra i nuovi principi costituzionale e il vecchio regolamento carcerario del 1931 (22), soprattutto per quanto attiene al fine rieducativo che deve avere la pena detentiva (23). Oltre a ciò, la situazione in quegli anni, all'interno degli istituti di pena, era particolarmente complessa, in particolare aumentò molto la conflittualità interna, e le rivolte, sommosse e agitazioni furono molto frequenti. Come riporta Salvatore Verde, "si formarono nelle carceri i primi collettivi di detenuti comuni che avevano maturato una coscienza politica della loro condizione" ed inoltre "man mano che il conflitto cresce[va], la risposta istituzionale si estremizza[va] progressivamente sulle tradizionali modalità di intervento repressivo: massiccio ricorso all'arma dei trasferimenti, irrigidimento delle condizioni di vita interne, intervento delle forze dell'ordine dentro gli istituti" (24). Viene così inaugurata una nuova fase, denominata "dell'emergenza" che parte proprio dal nuovo regolamento penitenziario del 1975 (25) e si conclude con la creazione di carceri speciali, destinate principalmente ai detenuti politici. In sostanza, si crea nel sistema penitenziario una tripartizione, per cui abbiamo: "Il carcere riformato, destinato alla vasta area della criminalità comune, dove si sperimentano le nuove forme del controllo premiale: territorializzazione dell'esecuzione, scambio pena - comportamento; l'area dei detenuti a medio indice di pericolosità; le carceri speciali, destinate ai militanti della lotta armata, alle avanguardie del movimento carcerario e ai vertici della criminalità organizzata, nelle quali si realizza una vera e propria politica di guerra" (26).
La contrapposizione dunque tra la riforma del 1975, ispirata a principi di individualizzazione della pena e di rieducazione del condannato, e le successive "leggi d'emergenza", è solo parzialmente vera, infatti i contenuti della riforma vengono pienamente attuati per i "detenuti comuni", cioè per coloro che hanno in qualche misura accettato la logica della "contrattazione della pena" (27), mentre la riforma rimane praticamente inattuata per coloro che non hanno voluto stringere questo "accordo" con lo Stato, ma che anzi con la loro criminalità di stampo politico, hanno dichiarato guerra a quest'ultimo.
Nel 1977 viene emanato un decreto interministeriale (Ministero di Grazia e Giustizia, dell'Interno e della Difesa) recante delle norme per il "coordinamento del servizio di sicurezza esterna degli istituti penitenziari" (28). In poche parole, viene preso atto che il fenomeno delle evasioni pregiudica il mantenimento dell'ordine pubblico, quindi gli ordinari compiti di sicurezza portati avanti dall'amministrazione penitenziaria all'interno degli istituti debbono essere affiancati temporaneamente (29) da controlli all'esterno effettuati da personale di polizia, per cui viene decretato che verrà nominato un generale dei carabinieri col compito di assicurare il necessario coordinamento tra forze di polizia e amministrazione penitenziaria e che "tutti i direttori (...) sono tenuti a dare immediata comunicazione all'ufficiale generale dei carabinieri, preposto al servizio, delle disposizioni adottate per il mantenimento della sicurezza, dell'ordine e della disciplina all'interno degli istituti" (art. 3) (30). Infine molto importante è l'attribuzione che viene data al generale dei carabinieri della facoltà di effettuare visite all'interno degli istituti penitenziari, così da rendersi conto di persona del livello di sicurezza delle varie carceri (art. 2). A ricoprire tale delicato ruolo, viene chiamato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, in quanto "a parte altri meriti più o meno conosciuti o memorabili, il generale aveva dato prova di certa esperienza carceraria in epoca recente, intervenendo nel 1974 (...) nell'operazione nota come la strage [del carcere] di Alessandria" (31).
Inizialmente, vi era un grande riserbo su quali fossero gli "istituti penitenziari speciali" che il generale Dalla Chiesa aveva in mente di realizzare, tanto che il giornalista Giancarlo Ghislanzoni riporta le parole di un alto funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia, il quale si rifiuta di fare i nomi delle "supercarceri", dicendo di mantenere il massimo riserbo a causa del "periodo di guerra" in atto in quel momento (32). Ben presto però si capì che i luoghi prescelti erano gli istituti penali di Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone, Trani, a cui si aggiunsero presto Novara, Termini Imerese e Pianosa.
Per come vengono organizzati questi istituti penitenziari, in molti si chiedono se ormai in Italia si sia creato nei fatti un doppio sistema carcerario, composto da un circuito destinato ai prigionieri "normali" e un secondo destinato ai "pericolosi", ovvero detenuti (per la maggior parte terroristi) che sono catalogati come potenziali rivoltosi ed evasori. Molto interessante è al riguardo l'articolo di Gaetano Scardocchia sul "Corriere della sera" (33), il quale evidenzia come a livello formale non sia corretto parlare di "doppio sistema carcerario" in quanto negli "speciali" non viene mai derogata la legge penitenziaria, ma semplicemente viene applicata alla lettera; di conseguenza il differente trattamento è percepibile nel concreto, laddove per esempio, per quanto concerne "l'ora d'aria", sarà concessa negli istituti speciali nella misura minima di due ore al giorno stabilite dal regolamento penitenziario (art. 10), mentre nelle altre carceri ordinarie la permanenza all'aperto sarà superiore (34). Il giornalista conclude dicendo che, anche se il regolamento non viene violato formalmente, è legittimo porsi la domanda se queste prigioni "supersicure" non violino almeno il principio della assoluta imparzialità che deve avere il trattamento penitenziario (35), e riporta che "per assurdo, i difensori delle prigioni sicure affermano che l'isolamento dei brigatisti, dei nappisti, dei rivoltosi e degli agitatori è oggi il solo modo per salvare la riforma: precludendone il godimento ad alcuni detenuti, la riforma può essere applicata a tutti gli altri. È appunto la teoria del male necessario" (36).
La creazione di queste "carceri di massima sicurezza" accese anche un vivace dibattito politico, fra coloro i quali erano assolutamente contrari a tale tipologia di penitenziari, identificandoli addirittura a lager nazisti, e coloro che invece non accettavano assolutamente quest'ultimo termine di paragone e sottolineavano come questi istituti garantissero bene l'esigenza di sicurezza e custodia di determinate categorie di detenuti. Interessantissimo al riguardo è l'articolo di Paolo Guzzanti apparso su Repubblica (37) dove viene riportato il pensiero del parlamentare del P.C.I On. Trombadori, il quale si dichiara contrario a chi paragona il carcere dell'Asinara ad un lager nazista. Dice testualmente Trombadori:
"Neanche io ci metto la mano sul fuoco per l'Asinara. Mi rifiuto di credere, però, che, come ha detto Franca Rame, l'Asinara sia una Via Tasso. Dire questo, oltretutto, è offendere la memoria dei torturati delle SS. Può darsi pure, dico io, che in queste carceri ci siano residui di arretratezza che neppure la riforma riesce a rovesciare. Ma, d'altra parte: esistono documentazioni? Prove? Siano tirate fuori. Però stiamo attenti: io sono pronto, come parlamentare, a visitare queste carceri e vedere come stanno le cose. Ma compiere questa vigilanza non deve assolutamente voler dire smobilitare e indebolire la posizione di chi ha il duro compito di impedire le fughe e le evasioni".
A tali affermazioni, risponde, sempre sulle pagine del quotidiano Repubblica (38), l'On. Silverio Corvisieri, il quale invita l'On. Trombadori ad avvalersi del suo potere (in quanto parlamentare) di ispezionare gli istituti di pena, affinché possa (anche tralasciando le continue denunce dei detenuti e dei loro familiari) rendersi conto del "gravissimo attacco che con l'istituzione di questi lager era stato portato ai diritti umani dei detenuti e alla stessa riforma carceraria"; in quanto, prosegue il parlamentare "di questo si tratta e non di 'residui di arretratezza' che invece ci sono - e non come residui ma come norma - in tante altre carceri" (39). Conclude il parlamentare che probabilmente con l'istituzione di questi cinque "supercarceri" ancora non siamo arrivati all'annientamento psichico dei detenuti (40), ma "è stato compiuto il primo passo in una direzione inammissibile in uno Stato che si pretende di diritto", aggiungendo che "per questa via non si pone freno alle evasioni, le quali difficilmente potrebbero verificarsi senza la collaborazione dei carcerieri, ma, semplicemente, si ripristina il concetto della pena come vendetta sociale".
A tale dibattito politico, i mezzi di informazione non rimangono affatto estranei, anzi numerose sono le inchieste giornalistiche sull'argomento. De Luca su "Repubblica", ad esempio, fa un'inchiesta intitolata Il bunker bianco chiamato carcere speciale (41), registrando il dibattito sull'Asinara proprio tra i parlamentari Corvisieri e Trombadori e lo psichiatra Giovanni Jervis. Il parlamentare del P.C.I. ribadisce come secondo lui "le carceri speciali non traggono origine da una volontà repressiva dello Stato, ma dall'attacco mortale che si è scatenato contro questo Stato con violenza terroristica, da varie ed opposte posizioni esterne, e anche dal suo stesso interno, e dal fenomeno massiccio delle evasione e delle rivolte carcerarie". Trombadori, inoltre, sottolinea la grande differenza che i detenuti ricevono all'Asinara nelle due diverse sezioni denominate "Centrale" e "Fornelli". In quest'ultima, infatti, i detenuti
"vivono all'interno del pugno di ferro senza esserne colpiti direttamente nelle persone o nello spazio che rimane a loro disposizione: spazio che è fisico ma insieme morale ed esistenziale. Parlo dello spazio proprio della cella, dei reparti, dei passeggi e dello spazio dei regolamenti per quanto riguarda i diritti sanciti dalla riforma: accesso alla stampa, alla televisione, ai libri, vitto, acqua, ecc. In questa diramazione (...) c'è uno spazio a misura di detenuto, certo non a misura di uomo libero, vi è molto da fare ancora per raggiungere i livelli indicati nella riforma".
Diverso è invece la situazione che Trobadori descrive nella diramazione "Centrale", dove sono ospitati esponenti importanti del terrorismo rosso e nero (42), i quali non sono ammessi al lavoro esterno e sono costretti a vivere in tre in una cella di circa quattro metri per quattro per quasi la totalità della giornata (43). Egli conclude ribadendo che, a suo parere, non esiste nessun disegno di annientamento delle persone, che anzi le condizioni fisiche dei detenuti erano apparse buone. Di diverso tenore è invece l'On. Corvisieri, il quale è dell'opinione che la diversità del trattamento riservato ai terroristi, "dipenda non dalla maggiore o minore pericolosità dei detenuti ma da valutazioni politiche o di altra natura" e che tutto ciò sia contrario alla riforma penitenziaria del 1975. Dello stesso avviso è lo psichiatra Jervis, il quale vede nel trattamento dei detenuti politici non solo la volontà di rendere loro estremamente difficoltosa la fuga, ma denuncia una volontà di "modificare la loro stessa capacità di proporsi affettivamente, intellettualmente e socialmente contro lo Stato", sottolineando che anche nel "vecchio" carcere venivano lesi i diritti umani, ma ciò era dovuto al clima caotico o anche di arbitrio e di sadismo presente nei vari istituti. Adesso, invece, è come se questo "annientamento" dell'individuo fosse pianificato: le sopraffazioni non sono più dovute "a complesse dinamiche sociali, fatte da centri di potere, di gerarchie, di gruppi mafiosi", ma da un rapporto diretto tra il carcere e il detenuto, il quale si trova ad essere "plasmato dall'istituzione attraverso le mura, gli orari, le privazioni, soprattutto attraverso la sottrazione di scambi personali, dato che si trova praticamente ad essere isolato".
Un'altra inchiesta giornalistica di denuncia sulle condizioni di vita dei detenuti politici nelle "supercarceri" viene fatta da Roberto Fabiani sull'"Espresso", con un articolo denominato Quell'Italia che sta dietro le sbarre (44). Il giornalista riporta le testimonianze di parenti e avvocati dei detenuti che hanno avuto modo di visitare questi istituti di pena, e anche in questo caso, emergono carceri dove viene praticata "la segregazione fine a se stessa e non per motivi di sicurezza", in cui il detenuto "è tagliato fuori da ogni possibilità di contatto con la famiglia" oltre a dover affrontare molte difficoltà legate ai bisogni primari quali il diritto alla difesa e ad essere curato, tanto che, conclude Fabiani, "in questi istituti sembra che la legge non valga".
Altro problema non indifferente sollevato dall'inchiesta dell'"Espresso", che concerne principalmente il carcere dell'Asinara ma comune a quasi tutte le isole-carcere fra cui anche Pianosa, riguarda la difficoltà dei familiari dei detenuti di raggiungere l'isola per i colloqui con i propri cari, impresa che si presenta spesso difficoltosa a causa delle avverse condizioni meteo-marine e soprattutto molto onerosa a livello economico (45); circostanza, quest'ultima, che rende ancora più difficile la vita dei detenuti nelle isole, che spesso debbono rinunciare ai colloqui loro garantiti dalla legge (46).

2.2 Funzionamento e organizzazione delle "super-carceri" di Pianosa e dell'Asinara

Non è un caso il fatto che fu deciso di realizzare su isole, già sedi di colonie agricole, alcuni istituti penali "speciali" sul finire degli anni '70 del secolo scorso per combattere il terrorismo. Esse, infatti, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, ben si prestavano alle esigenze di sicurezza e di custodia dei detenuti, poco importando se ciò andava a scapito di altre esigenze, in primis la possibilità di contatto dei reclusi con i propri familiari.
Il dato interessante è che soltanto alcune diramazioni vennero adibite ad ospitare i detenuti "politici" più pericolosi (47), i quali, però, a differenza dei detenuti comuni, restavano tutto il giorno chiusi nella loro cella senza avere la possibilità del lavoro all'esterno (48). A tal proposito merita citare la descrizione del carcere dell'Asinara riportata da Roberto Fabiani, nel già indicato articolo sull'Espresso. Dice il giornalista che
"se i contatti con l'esterno sono ridotti a zero, la vita all'interno della prigione dell'Asinara è tutta costellata di crudeltà inutili, grandi e piccole. I detenuti si dividono in due gruppi: quelli normali, che escono e vanno a fare un lavoro consistente nello spaccare le pietre con mazza e piccone, e i politici, che non escono mai. Abitano celle costruite apposta per loro su un pendio e che hanno un lato sotto il livello del suolo; misurano quattro metri per 2,60 e sulla parete lunga sono incastrati quattro letti a castello. Accanto alla porta il gabinetto alla turca. Rimane libero uno spazio sufficiente a fare due passi e mezzo in avanti e altrettanti indietro. E quando uno cammina, gli altri debbono stare a letto. Le mura della cella sono bianco-calce e guardando fuori dalla porta si vede a due metri di distanza un muro bianco. Dentro le celle una lampadina da 150 candele rimane accesa giorno e notte. L'acqua che esce dal rubinetto è fangosa, per cui si è costretti a comprare l'acqua minerale (...). Ai politici è vietato quello che è consentito a tutti gli altri detenuti, tenere un fornello. Quando lavano la biancheria la debbono mettere ad asciugare sulle brande: hanno chiesto uno spago per appenderla, negato. In questi buchi in genere ci sono chiusi in tre e non debbono avere nessun contatto visivo con i detenuti delle altre celle: infatti prendono l'aria a turno. Passeggiano un'ora la mattina e un'ora il pomeriggio, per le altre 22 ore stanno sempre a contatto di gomito. Tre volte la settimana, se il mare è calmo, arriva il battello e possono sperare di leggere un giornale. Se scrivono una lettera sanno già che arriverà a destinazione dopo 25 giorni .[...] Spesso gli agenti di custodia piombano nelle celle di notte, si portano via il detenuto senza dargli neppure il tempo di raccogliere le sue poche cose e lo caricano su un elicottero che lo aspetta col motore già acceso. [...] I trasferimenti sono talmente frequenti e improvvisi che avvocati e parenti hanno ormai preso l'abitudine di telefonare prima per sapere se il detenuto è ancora lì. Ma neppure questo basta, perché mentre loro arrivano arriva anche il trasferimento del detenuto e non lo trovano più".
Situazione del tutto simile a quella dell'Asinara venne creata nel carcere di Pianosa, dove fu scelta la diramazione "Agrippa" quale luogo dove ospitare i detenuti "politici". Essa si trovava all'interno dell'isola oltre il muro denominato "Dalla Chiesa", opera che fu voluta dal Generale quale mezzo di difesa ulteriore che separava l'abitato "civile" di Pianosa dal resto dell'Isola. L'"Agrippa" era un "carcere nel carcere", dotato di ingenti mura delimitanti che ne garantivano l'isolamento all'interno della struttura carceraria (49). I detenuti di questa "piccola fortezza", restavano tutto il giorno chiusi nella loro cella, e, a differenza di quanto avveniva rispetto ai condannati delle altre diramazioni, non era loro permesso lavorare all'esterno (50).
In effetti risalta la differenza di trattamento tra i "comuni" ed i "politici", infatti per i primi la carcerazione sull'isola era caratterizzata da un regime detentivo abbastanza sopportabile, in quanto avevano la possibilità di lavorare per l'intera giornata, e la segregazione riguardava solamente il periodo notturno (51); i secondi, al contrario, vivevano un isolamento pressoché totale, aggravato anche in questo caso dal fatto della estrema difficoltà dei rapporti con i familiari (52).
Nella sostanza, benché tutto ciò riguardasse solo una diramazione, l'immagine e la specificità del carcere di Pianosa si modificarono irreparabilmente. Il fatto che al suo interno fossero presenti detenuti "di un certo calibro", quali terroristi ed in seguito i mafiosi, influì notevolmente su tutta la vita e l'organizzazione dell'isola, la quale subì una "militarizzazione" che era in contrasto con le idee originarie che furono alla base della istituzione della colonia e tutto ciò sicuramente velocizzò quel processo che si sarebbe concluso con la chiusura della colonia (53).
3 Prospettive future
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, l'esperienza di Gorgona rappresenta un'alternativa valida nel modo di gestire ed intendere la reclusione. I problemi che affliggono ormai da molti anni le carceri "chiuse" riguardano essenzialmente la questione del sovraffollamento, la mancanza di lavoro ed in genere la scarsa presenza di tutte quelle attività (sportive, ricreative, scolastiche etc.) essenziali per la risocializzazione del condannato (55). Per questi motivi, una strada da percorrere potrebbe essere proprio quella di ripensare ad un utilizzo degli istituti "aperti" come Gorgona, situati non necessariamente su di un'isola, ma magari nelle prossimità dei centri abitati. Chiaramente anche in questo caso la popolazione detenuta andrebbe scelta esclusivamente tra coloro i quali hanno un basso indice di pericolosità, proprio per evitare che la convivenza in comune all'aria aperta non sia motivo di tensione tra i detenuti.
In sostanza andrebbe completamente rivista la funzione attribuita ai lavori all'aperto, non più ovviamente considerati dal punto di vista ottocentesco di "lavori forzati", ma neppure come un semplice modo per togliere i detenuti dall'ozio della permanenza in carcere. Il lavoro dovrebbe essere considerato quale vera e propria opportunità per il detenuto di vivere la detenzione non come mera privazione della libertà, ma come periodo di riflessione attraverso il quale riguadagnarsi l'ingresso nella società (56).
Sulla stessa linea di pensiero è l'ex vice presidente della Regione Toscana Angelo Passaleva, il quale riferisce che la Regione ha in mente "un carcere che sia una pena, ma anche un luogo dove si forniscono gli strumenti utili per reinserirsi nella società" (57). Passaleva, al riguardo, giudica estremamente positivo il carcere di Gorgona, tanto che sarebbe auspicabile che fosse preso come riferimento per altre realtà carcerarie, in quanto questo tipo di detenzione "riduce (...) le recidive e consente di abbattere anche i costi di esercizio dell'Istituto" (58); egli inoltre pensa che "se un'esperienza simile alla Gorgona sarà realizzata anche a Pianosa (...) ben venga anche lì il ritorno del carcere" (59).
Per quanto riguarda Pianosa, la legge 23 dicembre 1996 n. 652 disponeva la definitiva cessazione delle finalità detentive dell'isola inderogabilmente entro il 31 ottobre 1997, concludendo peraltro quel periodo iniziato nel 1992 (60) che prevedeva l'utilizzo degli istituti di Pianosa e Asinara per gestire l'emergenza della criminalità mafiosa di quegli anni.
Particolarmente interessante è stato il convegno svoltosi a Pianosa il 16 e 17 maggio 1997, intitolato "Pianosa: passato, presente, futuro", i cui atti furono riportati in un libro a cura di Claudia Danesi (61). L'allora direttore della casa di reclusione di Pianosa dottor Pier Paolo D'Andria sottolineava la possibilità di molteplici prospettive future dell'isola. Una prima ipotesi poteva essere quella di conservare l'azienda agricola penitenziaria anche dopo il 31 ottobre 1997, prospettiva interessante in quanto, come è testimoniato dagli atti, "l'ecosistema della Pianosa si è evoluto nei secoli attraverso la coesistenza della flora e della fauna selvatica con elementi botanici e zoologici rispettivamente coltivati ed addomesticati attraverso l'attività agropastorale dell'uomo, [...] in caso di repentino azzeramento di tale attività, non possono escludersi gravi turbamenti dello stesso equilibrio ambientale dell'isola" (62).
D'altronde, il Dott. D'Andria riferiva che sul piano giuridico non era attuabile una eventuale proroga del mantenimento del carcere in quanto l'art. 6 della citata legge n. 652/'96, nella sua formulazione così ampia (cessazione della "utilizzazione, per finalità di detenzione, degli istituti di Pianosa e dell'Asinara") "sembra[va] non ammettere margini di impiego di lavoranti aventi lo status di condannato o di internato" (63). In ogni caso, un uso "alternativo" del carcere di Pianosa avrebbe comportato la chiusura della sezione speciale "Agrippa", il cui mantenimento, a causa dei pesanti vincoli legati alla sicurezza, avrebbe reso molto difficoltosa ogni altra attività.
Abbandonata quindi l'ipotesi di una eventuale proroga dell'utilizzo di Pianosa per finalità detentive, sempre da quanto emerse dagli atti del convegno, rimanevano altre due possibilità, che fra l'altro avrebbero garantito la manutenzione dei fabbricati, la sorveglianza costiera dell'isola e il collegamento marittimo con l'Elba.
La prima ipotesi riguardava la possibilità per l'amministrazione penitenziaria di istituire a Pianosa una colonia marina per brevi soggiorni destinati ai propri dipendenti, sull'esempio di Is Arenas in Sardegna, sperimentando anche la "compartecipazione di altri enti statali (es. Ministero degli Interni; arma dei carabinieri) eventualmente cointeressati ad una limitata e razionale utilizzazione della Pianosa per finalità legate al benessere dei propri dipendenti" (64).
Un secondo progetto, non alternativo ma complementare al primo, riguardava l'istituzione di una scuola di formazione del personale dell'amministrazione penitenziaria, destinato sia alla polizia penitenziaria che al personale civile. Chiaramente, considerate le caratteristiche geografiche del posto e le difficoltà di collegamento con la terra ferma, come sosteneva D'Andria, "appar[iva] difficile l'attuazione di un centro formativo destinato ad ospitare corsi periodici per un elevato numero di allievi,(...) più plausibile appar[iva] invece la possibilità di un centro idoneo a garantire brevi corsi residenziali" (65). Comunque, in entrambi i casi, veniva sottolineata l'esigenza di mantenere a Pianosa un distaccamento di agenti di polizia penitenziaria, insieme con il servizio navale, che avrebbe garantito una indispensabile presenza costante sull'isola e i collegamenti con la terraferma.
Un ultimo progetto, anch'esso illustrato durante il convegno sopramenzionato, riguardava l'istituzione di un ente scientifico, denominato "Centro Internazionale di Studi dell'Isola di Pianosa" (CISIP), senza alcuna attinenza con il passato penitenziario dell'isola, ma con uno specifico carattere scientifico, dovendo essere articolato secondo quattro laboratori permanenti riguardanti : 1) scienze naturali della terra e del mare; 2) scienze archeologiche, antropologiche e storiche; 3) scienze agrarie; 4) comunicazioni informatiche e telematiche (66). La cosa interessante era che nell'ambito delle attività del CISIP si sarebbe dovuto collocare anche il progetto di una Scuola di Formazione del personale di Polizia penitenziaria, in un'ottica di cooperazione tra il Ministero dell'Ambiente, della Giustizia e Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano (67). Inoltre era prevista la possibilità che nella diramazione "Sembolello" venissero ospitati dei detenuti ammessi al lavoro esterno ex art. 21 del Regolamento penitenziario (68) assieme al personale di vigilanza.
Ad oggi è stato attuato solo quest'ultimo progetto, sono infatti presenti sull'isola circa venti detenuti, provenienti dal carcere di Porto Azzurro (LI), i quali si occupano della manutenzione degli edifici presenti sull'isola.
Da tutto ciò si evince che il minimo comune denominatore dei vari progetti per l'isola di Pianosa, è costituito essenzialmente dalla duplice volontà di preservare l'ambiente floro - faunistico e di mantenere una presenza dell'amministrazione penitenziaria. Tutto questo emerge dalle parole del dott. Giovanni Tinebra, capo del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il quale auspica il riutilizzo delle dismesse isole di Pianosa e Asinara in quanto ciò rappresenterebbe una preziosa opportunità di recupero per i detenuti, i quali "dovrebbero lavorare per il bene delle isole, riparando le strade e i fabbricati, disboscando la sterpaglia, aiutando la fauna locale, accompagnando comitive di turisti" (69).
Nel mese di giugno 2004 è stato firmato un protocollo d'intesa tra il Ministero dell'Ambiente e il Ministero della Giustizia, nel quale le parti "si impegnano a promuovere l'utilizzo della popolazione in esecuzione di pena, al fine di favorire la reintegrazione sociale dei condannati e diminuire il rischio di recidiva con particolare riguardo al sistema delle aree protette" (70), e un terreno di prova, a detta del Ministro Roberto Castelli, potrebbe essere proprio l'isola di Pianosa (71).
(Centro di documentazione "L'altro diritto"-2009)

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