sabato 30 aprile 2011

Luigi De Magistris, sindaco di Napoli

"Una frase di Don Milani ha sempre accompagnato la mia vita, risuonando dentro l’ animo come un’esortazione all’impegno attivo, che spesso richiede coraggio e, forse, un pizzico di saggia follia.
Soprattutto quando si tratta di un impegno che fin dall’inizio si preannuncia gravoso, anche in termini personali, ricolmo di rischi e di insidie. Soprattutto quando lo si reputa doveroso. Questa frase di Don Milani è in verità una domanda, una domanda semplice e difficile allo stesso tempo, perché obbliga ad una sola risposta. Chiedeva Don Milani: “Che senso ha avere le mani pulite e tenerle in tasca?”. Qualche settimana fa, ho cominciato ad interrogarmi anche io, dopo il pantano delle primarie del centrosinistra e di fronte alla pressione affettuosa rivoltami da associazioni e movimenti, semplici cittadini e semplici cittadine. Così ho risposto nell’unico modo possibile: non serve a niente che io abbia le mani pulite se poi le nascondo nelle mie tasche. Non serve a niente che sostenga la necessità di una primavera etico-politica per il Paese se poi non mi impegno in prima persona, se non lo faccio per la città che mi ha visto crescere e che ho amato profondamente e, soprattutto, che amo ancora oggi. Così alla fine ho superato le fisiologiche titubanze e ho rotto gli indugi, scegliendo di candidarmi sindaco a Napoli, sapendo quanto la sfida anti-sistema sia ardua. Esiste infatti un partito trasversale in Campania: quello del non cambiamento, quello della conservazione dello status quo, quello dell’opposizione verso una pacifica rivoluzione etico-politica. La stessa rivoluzione che la cittadinanza richiede e che stiamo cercando di attuare nella corsa a palazzo S.Giacomo. Utilizzo il plurale perché sono convinto che Napoli è dei suoi abitanti e loro debbano riprendersela, sottraendola ai clan, ai comitati d’affari, ai potentati politici, al furto delle sue risorse e dei suoi beni comuni da parte di questi soggetti. Per questo lo slogan scelto per la campagna elettorale è stato “Napoli è tua”. Senza i cittadini di Napoli questa rivoluzione, di cui mi sento semplice strumento, non è possibile.E’ stata, la mia, una scelta di amore e passione, di sentimento, di rabbia e di rispetto per una città che avrebbe tante definizioni ma che per me ne ha una sola: è la MIA città. E’ la NOSTRA. Adesso però dobbiamo riprendercela.
Biografia
Ho 43 anni, sono sposato ed ho due figli maschi. Mi sono diplomato al liceo classico "Pansini" di Napoli nel 1985.
Dopo il diploma, mi sono iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Napoli, la Federico II, dove ho conseguito la laurea a 22 anni, con 110 e lode.
Nel 1993, a 26 anni, ho superato il concorso in magistratura. Dopo il tirocinio, svolto sempre a Napoli, ho iniziato ad esercitare le funzioni giudiziarie, quale Sostituto Procuratore della Repubblica, presso il Tribunale di Catanzaro, dove sono stato impegnato dal 1996 al 1998.Mi sono occupato, da subito, di inchieste riguardanti la corruzione e la criminalità organizzata.
Nel 1999 sono tornato a Napoli, per mia volontà, dove ho svolto le stesse funzioni di Pm fino al 2002. Anche a Napoli mi sono dedicato ai reati commessi dalla criminalità dei cosiddetti colletti bianchi, oltre ai reati del crimine organizzato in generale.
Dal 2003 al 2008 sono ritornato a fare il Pm in Calabria, precisamente a Catanzaro, dove sono stato titolare di indagini rilevanti, tra le quali quelle note come Toghe Lucane, Poseidone e Why Not. Ciò che è accaduto dopo, a seguito delle mie indagini -che hanno riguardato l’intreccio fra spezzoni della politica e comitati d’affari oltre che le logge massoniche- è cronaca conosciuta: il trasferimento, l’esproprio delle inchieste e delle mie funzioni di magistrato.
Nel 2009 sono stato eletto parlamentare europeo come indipendente dell’Italia dei Valori, ottenendo 500mila voti. In Europa rivesto il ruolo di presidente della Commissione controllo dei bilanci. Quest’anno, inoltre, sono diventato responsabile del Dipartimento nazionale giustizia del partito.L’esperienza europea di questi due anni è stata fondamentale per conoscere meglio le mancanze e i bisogni del mio Paese, in particolare del Mezzogiorno. La Commissione controllo dei bilanci, infatti, porta avanti un compito di rilevanza centrale non solo per le istituzioni comunitarie, ma per la stessa democrazia europea: garantire la trasparenza dell’investimento dei finanziamenti che l’Ue destina ai paesi aderenti, in primo luogo ovviamente l’Italia, dove lo sperpero del denaro pubblico a vantaggio dei soggetti lobbistici e della mala politica è stato, purtroppo, un fattore determinante nella storia recente. In Europa, come parlamentare, ho sempre cercato di non perdere il filo diretto con la mia città, Napoli, ma anche con il Paese. Le interrogazioni da me presentate alla Commissione e al Consiglio hanno infatti riguardato la politica della sicurezza messa in atto dal governo, quindi il delicato tema dei diritti dei migranti (espulsioni di clandestini, rimpatri forzati di massa e caso Rosarno), ma anche il provvedimento dello scudo fiscale, contro il quale mi sono battuto insieme ad altri colleghi di altre formazioni partitiche. Molto intensa e coinvolgente, infine, la battaglia per la libertà di informazione e per la trasparenza nell’impiego dei fondi comunitari destinati alla ricostruzione dell’Abruzzo post terremoto.Proprio la vicenda de L’Aquila mi ha spinto, come presidente della Commissione, a presentare interrogazioni, ma soprattutto a visitare la città per incontrare i rappresentanti istituzionali, con l’intento di monitorare e garantire un investimento chiaro e opportuno delle risorse stanziate dall’Ue.Per quanto riguarda la Campania, ho presentato diverse interrogazioni sull’emergenza rifiuti: in particolare contro la discarica di Chiaiano, che contrasta con la legislazione comunitaria in materia ambientale, dove ci siamo recati in visita insieme ad altri colleghi parlamentari, e in merito alla cosiddetta “Terra dei fuochi”. Altre interrogazioni hanno invece riguardato la riqualificazione dell’ex sito industriale di Bagnoli, dove è stata accertata una violazione della normativa sugli appalti pubblici, e la vicenda degli operai Fiat di Pomigliano d’Arco, compressi nel loro diritto costituzionale di sciopero. Accanto a questo, ho richiesto parere della Commissione e del Consiglio, sempre mediante interrogazione, anche in merito al crollo di Pompei e alla privatizzazione della gestione dell’acqua. Il resto della mia biografia mi piacerebbe scriverlo a Napoli, insieme ai cittadini e alle cittadine che mi vorranno sostenere nella corsa alla carica di sindaco". (dal blog di Luigi De Magistris)

giovedì 28 aprile 2011

Siamo tutti clandestini

















"La Corte di Giustizia della Ue ha bocciato la norma italiana che prevede il reato di clandestinità, introdotto nell'ordinamento italiano nel 2009 nell'ambito del "pacchetto sicurezza". Punendo la clandestinità con la reclusione, la norma è in contrasto con la direttiva europea sui rimpatri degli irregolari, spiegano i giudici europei, la cui più importante prerogativa è garantire che la legislazione Ue sia interpretata e applicata in modo uniforme in tutti i paesi dell'Unione. (sintesi da 'La Repubblica')

martedì 26 aprile 2011

Quando non si vive più si può anche impazzire

L'aggressione di alcuni ragazzi a due carabinieri non è in alcun modo giustificabile e va condannata. Ma ci sono delle considerazioni da fare, oltre al fatto che stiamo parlando di adolescenti. Quella più importante è che da alcuni anni in Italia, ma forse anche nel resto d'Europa e di alcuni parti del mondo, soprattutto in alcune città tra cui Roma, non si riesce più a vivere bene. Un po' per tutti, ma soprattutto per i meno abbienti e che si trova ai margini della società, dalla quale viene subito malamente invitato a non farsi troppo vedere in giro. La storia degli zingari, degli stranieri, dei disoccupati, dei cosiddetti clandestini, degli sfruttati, degli abusivi e di tanti altre categorie sociali ci dovrebbe insegnare qualcosa.
Se tu, cittadino normale e legislatore, non permetti a chi è più debole di rialzarsi e non crei delle reti sociali, non crei i presupposti affinché quel cittadino in difficoltà, per la sua stessa sopravvivenza, si rivolti contro di te e ti sopraffagga per disperazione, anche se sa di sbagliare e ne pagherà gravi conseguenze a meno di accettare da subito di soccombere.
Un esempio palese di questa dimensione umana è stato l'episodio che, prima in Tunisia e poi in tutto il Medioriente, ha scatenato le attuale rivolte della popolazione: un venditore ambulante, impedito da rigide leggi che poliziotti troppo zelanti gli applicavano di volta in volta mettendolo nell'impossibilità di sopravvivere, si è ucciso dandosi fuoco. Altri poi hanno poi reagito aggredendo e spodestando chi li metteva in questa situazione, scatenando quelal rivoluzione sociale ancora in atto nelle sponde dirimpettaie del Mediterraneo.
In Italia, a Roma, succede sempre più spesso la stessa situazione. Ma per capirlo e vederlo bisogna stare per strada, sulla strada, con i più deboli, spesso invisibili. Nel caso dei carabinieri aggrediti - e ripeto non sto giustificando nessun gesto di violenza - al giovane fermato, non in regola con le disposizioni anti alcol, gli avrebbero ritirato la patente e magari anche l'auto. Se quello ci lavorava o ci campava è come metterlo con le spalle al muro. Ci sono norme ormai nella nostra cosiddetta 'civiltà, con delle multe o sanzioni troppo pesanti rispetto alla debolezza sociale ed umana di chi si trova per forza ad infrangerle.
Se io vendo degli ombrelli per strada o delle borse contraffatte, e posso essere un bengalese o un italiano, se il vigile di turno mi becca mi sequestra la mercanzia. Ma se io vado in strada a a vendere per poche lire per poter mangiare nessuna legge mi impedirà di trovare qualsiasi espediente per poter sopravvivere, fino a magari a diventare un delinquente.
Ho conosciuto delle persone a cui hanno tolto la patente perché in stato d'ebbrezza o poco sopra la norma. L'intento del legislatore di punire è giusto, ma non impedendo ad uno che con la patente ci vive di poter continuare a lavorare. Anche perché per recuperare i documenti o l'auto sequestrata entri praticamente in un girone burocratico infernale per mesi e mesi. Questo mentre la tua famiglia non ha niente da mangiare.
Cosa volete che faccia un individuo se il suo bambino non può mangiare? Farà qualsiasi cosa pur di non vederlo così. Se tu distruggi un campo rom senza prima immaginare dove andranno queste persone - e dico persone, non animali, come ho visto spesso trattare uomini, donne e bambini da vigili zelanti e ridanciani che a fine mese prendono lo stipendio - sicuramente questi uomini e donne cercheranno di sopravvivere in qualche modo. E se tu gli impedisci tutto si rivolteranno verso quella società che rappresenti e che dovresti tutelare.
E' troppo facile infierire contro il tuo simile che in quel momento è più debole. A volte i legislatori e le nostre forze dell'ordine sembrano essere molto zelanti con i più forti e molto ciniche con i più deboli.

sabato 23 aprile 2011

Quando la chiesa e i fascisti inventano i nuovi lager durante la resurrezione di Cristo

"Se non potremo rientrare in chiesa e dormire lì anche stanotte allestiremo una tendopoli sul prato fuori la basilica di San Paolo". E' quanto dicevano nel pomeriggio i rom sgomberati ieri dal campo a Casal Bruciato, che si preparano a trascorrere la notte accampati fuori della basilica di San Paolo. "Speriamo di rientrare - affermavano dopo essersi riuniti in una assemblea improvvisata all'aperto - ma se dovessimo accamparci per la notte qui fuori, speriamo non ci siano problemi con la polizia". Nello spazio davanti alla basilica sono parcheggiati tre automezzi blindati della polizia giunti poco prima delle 19.Intanto ha cominciato a piovere, anche se a tratti, e i nomadi continuano a chiedere di poter rientrare nella basilica. In particolare chiedono di poter parlare con un responsabile. A cercare di sedare gli animi alcuni gendarmi. I cancelli della basilica comunque continuano a restare chiusi. La Protezione civile e Arci di Garbatella hanno montato tre piccole tende e un telone sotto gli alberi per poter riparare i circa quindici bambini nomadi presenti. "Fateci rientrare". Inutili fino a questo momento i tentativi dei rom rimasti all'esterno dell'area della basilica, di rientrare nelle stanze dove hanno trascorso la notte o comunque di ricongiungersi ai familiari. Battendo con le mani sui cancelli d'ingresso della chiesa, hanno scandito a gran voce in coro "aprite, aprite". Alcuni rom hanno anche mostrato ai gendarmi e ai responsabili della basilica i loro neonati, gridando "tra poco è Pasqua, è Pasqua anche per loro". Gli operatori delle associazioni di volontariato presenti, tra cui Arci e Popika, hanno riferito: "Stiamo cercando da ore di parlare con i responsabili della basilica e anche ora continuano a non dialogare con noi e a prendere tempo".In circa 150 hanno trascorso la scorsa notte in due grandi stanzoni adiacenti al chiostro della Basilica di San Paolo adibiti a magazzini. E se la nottata è trascorsa tranquilla, come ha riferito la gendarmeria vaticana, già durante le prime ore della mattinata la situazione è cambiata. I rom che sono usciti dall'area della basilica non hanno potuto più rientrare, anche se un loro famigliare era rimasto all'interno. Per tuttga la giornatga è continuata la trattativa con il Campidoglio. Prima la proposta di offrire 500 euro a famiglia per coloro disposti a tornare in Romania. Poi un'ultima soluzione: altri 500 euro messi a disposizione dal Vicariato. Un gruppo di 16 rom ha accettato e si è allontanato dalla basilica a bordo di un pullman verso il Cara di Castelnuovo di Porto dove "andranno le donne e i bambini mentre gli uomini passeranno la notte in un centro della capitale. A Pasqua le famiglie non saranno divise, pranzeranno insieme, saranno separate solo di notte, per poi partire dopo Pasquetta''. Secondo il sindaco Gianni Alemanno, "Roma non può diventare una gigantesca baraccopoli". E sulla soluzione alla trattativa con i rom ha aggiunto: "Non può essere, come viene richiesta da molte famiglie nomadi e da associazioni varie, di offrire una casa o un alloggio a tutti''. La situazione in realtà, per tutta la giornata è stata molto tranquilla, quasi distesa. I negoziati sono proseguiti ininterrottamente per ore ed ore con la presenza delegato alla Sicurezza del sindaco Giorgio Ciardi, del direttore della Caritas diocesana di Roma, monsignor Feroci, dei vigili urbani e di altri. Ma i rom hanno tenuto duro: non vogliono tornare in Romania e non intendono scindere le famiglie con gli uomini da qualche parte e donne e bambini da un'altra.In mattinata era ripresa la trattativa tra le famiglie rom che chiedevano, e chiedono, di non essere separate e il Comune di Roma. Sul posto è stato presente un poliziotto romeno che collabora con il Campidoglio. Il capo della segreteria del sindaco di Roma, Antonio Lucarelli, già dall'alba nella chiesa, aveva di nuovo avanzato l'iniziale proposta: offrire assistenza alloggiativa al Cara di Castelnuovo di Porto per donne e bambini, mentre gli uomini sarebbero stati trasferiti nei centri sociali dell'amministrazione aperti dalle 20 alle 7. E per alcune ore la trattativa sembrava essersi bloccata poiché i rom continuavano a chiedere di poter rimanere in Italia ma uniti senza smembrare le famiglie. Poi, una seconda proposta è arrivata tramite Ciardi: il Comune avrebbe dato 500 euro a nucleo familiare se i nomadi accampati nella Basilica di San Paolo avessero accettato il rimpatrio assistito. Più passavano le ore e più cresceva l'ansia per i nomadi sugli sviluppi delle trattative con il Comune e le istituzioni interessate, per conoscere la loro futura destinazione. Alcuni rom, circa una cinquantina, che erano usciti dal cortile interno nel corso della mattinata, non erano stati fatti rientrare dai gendarmi ma hanno atteso composti un segnale di svolta. C'è chi è rimasto seduto su alcuni gradini, chi parlava con giornalisti e volontari di associazioni umanitarie. Il tutto davanti agli occhi increduli dei pellegrini italiani e stranieri che visitano in queste ore il complesso di San Paolo. Che non riuscivano a trattenere la curiosità domandando spesso alle guide o ai cronisti presenti la ragione dell'assembramento. Poi una nuova proposta del Comune: ai 500 euro per tornare in Romania si aggiungerebbero altri 500 euro messi a disposizione dal Vicariato. La maggior parte dei rom ha valutato la nuova ipotesi di ricevere mille euro totali a famiglia, mentre un gruppo diceva sì e si allontanava dalla basilica a bordo di un pullman. "Finalmente hanno cominciato ad accettare questa forma di sostegno dell'amministrazione - diceva Ciardi - Sedici stanno salendo sull'autobus diretti in una struttura del Comune dove resteranno, credo, fino a dopo Pasqua quando partiranno per il loro paesi d'origine". Ma altri continuavano a rimanere davanti alla chiesa. Intanto la proposta del Comune restava la stessa: assistenza alloggiativa al Cara di Castelnuovo di Porto per donne e bambini, mentre gli uomini sarebbero stati trasferiti nei centri sociali dell'amministrazione aperti dalle 20 alle 7. Ma sono molti i rom che continuano a chiedere di poter rimanere in Italia, insieme però alle loro famiglie.E c'è chi vuole restare. "E' una cosa che non accetto, non possono darci dei soldi e cacciarci come dei cani. Il comune di Roma ha promesso dei campi attrezzati. Chiediamo solo questo", diceva Stefan, romeno di 20 anni e da sei in Italia. Marian, 15 anni e in Italia da quando era bambino, costretto ad abbandonare la scuola da due anni dopo l'ennesimo sgombero, aggiunge: "Ci danno dei soldi per tornare in Romania, ma una volta lì senza casa, senza lavoro e senza diritti cosa faremo?". Solo fino a poco tempo fa Marian viveva in un campo nei pressi di piazzale della Radio. "Ormai ho perso il conto di quante volte ho cambiato campo - ha confidato - i vigili e i poliziotti fanno il loro lavoro, non abbiamo nulla contro di loro perchè fanno solo ciò che i capi ordinano loro di fare".Alemanno. "'Non possiamo rischiare di trasformare Roma in una gigantesca baraccopoli" ha precisato il sindaco Alemanno, dopo la polemica con la Comunità di Sant'Egidio. E sulla soluzione alla trattativa con i nomadi che si trovano a San Paolo ha aggiunto: "Non può essere, come viene richiesta da molte famiglie nomadi e da associazioni varie, di offrire una casa o un alloggio a queste famiglie. Se accettassimo questa ipotesi, arriverebbe nella capitale un flusso incontenibile di persone che verrebbero qui con la convinzione di trovare un alloggio o una casa. Sarebbe una situazione assolutamente ingestibile. Aggiungiamo un contributo di 500 euro al rimpatrio assistito in Romania per sottolineare la volontà di trovare una soluzione. Se sommiamo i nomadi ai rifugiati, ai senza fissa dimora, ai richiedenti asilo a Roma - ha continuato il primo cittadino - ci sono circa 22mila persone. Il circuito di accoglienza arriva alla metà. Se diamo segnali di accoglienza indiscriminata il rischio è di andare oltre questa cifra. Non possiamo cedere a una logica ricattatoria - ha concluso - che ci porta a negare il nostro piano di nomadi e la demolizione delle baracche abusive''.Il minisindaco Catarci. Davanti alla basilica anche il presidente dell'XII municipio, Andrea Catarci. Che questa mattina aveva descritto la situazione: ''Stiamo assistendo a scene di deportazione con gli uomini usciti che non vengono fatti rientrare dalla gendarmeria vaticana e le donne e i bambini dentro. Si parlano dietro le sbarre. Saranno una cinquantina quelli rimasti fuori e oltre un'ottantina quelli dentro''. Secondo il presidente dell'XI municipio, ''nonostante la benevola apertura del Vaticano che ha concesso praticamente del tempo in più al Campidoglio per trovare una soluzione, non c'è uno straccio di nuova proposta che consenta di mantenere uniti i nuclei familiari. E' assurdo e la situazione praticamente è bloccata''. Arci. ''Il Comune di Roma prenda pubblicamente l'impegno di assegnare una collocazione momentanea ai nomadi che hanno passato la notte nella Basilica di SanPaolo, in attesa della realizzazione di un'area attrezzata'', era stata la proposta di Claudio Graziano, dell'Arci, che ha seguito insieme ad altre associazioni umanitarie l'evolversi della situazione. ''Lo spazio - diceva Graziano - sarebbe una collocazione momentanea e uno spazio autogestito e quindi a costo zero per il Comune. Potrebbe essere possibile sostenere questa iniziativa con l'aiuto della Caritas, con cui stiamo parlando. Mi sembra un gesto di buonsenso''.Ma Ciardi ha risposto all'iniziativa delle associazioni ribadendo che la proposta del Comune di Roma è di ''trasferire donne e bambini al Cara di Castelnuovo di Porto, di fornire un ricovero per la notte agli adulti o in alternativa un rimpatrio assistito con contributi economici alle famiglie. Sono contrario, invece, agli spazi autogestiti''.Solidarietà. E tra le tante tavole apparecchiate per il tradizionale pranzo di Pasqua domani ce ne sarà anche una dedicata alla solidarietà con i rom. La rete delle associazioni che sono al fianco dei nomadi sta organizzando un pranzo a sostegno della causa delle persone sgomberate dall'insediamento abusivo in via dei Cluniacensi. L'appuntamento è sul prato antistante l'ingresso della basilica, gli organizzatori appronteranno un pranzo di fortuna per i nomadi e per tutti coloro che vorranno sostenere la loro causa. Un'unica richiesta da parte degli organizzatori: chi volesse partecipare porti da casa un piatto, un bicchiere e delle posate.Intanto, in basilica le funzioni religiose sono state celebrate con regolarità. Tutto è pronto per la Pasqua, a cominciare dalla veglia pasquale che si terrà stasera per finire alle sei messe che saranno officiate domani dalle sette fino al pomeriggio. Per tutti, una festività diversa".
E la domenica di Pasqua l'ipocrisia della chiesa tocca limiti eccelsi. Dice il Papa nella benedizione 'Urbi et Orbi': "Accogliamo i profughi'. E i Rom cosa sono?!?

domenica 17 aprile 2011

Nigeria, election day


"Sabato 16 aprile il popolo nigeriano è stato chiamato a votare per scegliere il suo nuovo presidente. Le presidenziali seguono di una settimana le elezioni che hanno rinnovato le due camere, mentre il 23 aprile sono in programma quelle per eleggere i governatori dei singoli stati della Federazione. Nonostante lo slittamento alla settimana successiva di tutti e tre gli appuntamenti elettorali a causa di problemi logistici avesse fatto pensare a un tentativo di manipolare le operazioni di voto, sembra che le politiche del 9 aprile siano state abbastanza regolari. Anche gli episodi di violenza pre-elettorale non hanno finora raggiunto i tristi standard della tornata del 2007, tra le più fraudolente e sanguinose mai viste in Africa. Tuttavia il test più importante è rappresentato dalle presidenziali. I candidati sono dodici, di cui solamente tre in corsa per la vittoria finale: Goodluck Jonathan, presidente in carica e portabandiera del People’s Democratic Party (Pdp); Muhammadu Buhari, del Congress for Progressive Change (Cpc), politico esperto già a capo di una giunta militare dal 1983 al 1985; Nuhu Ribadu, giovane rappresentante dell’Action for Congress of Nigeria (Acn), il quale si è candidato sull’onda dei successi ottenuti dal 2003 al 2007 alla guida della commissione nazionale anti-corruzione. Jonathan resta il grande favorito, non fosse altro per il fatto di presentarsi alle elezioni da presidente in carica e di appartenere al partito che nei precedenti tre turni elettorali ha lasciato poco più che le briciole agli altri schieramenti. Tuttavia per la prima volta dal 1999 il candidato del Pdp non è sicuro della vittoria finale. La crisi interna che il partito di governo ha vissuto negli ultimi due anni ha infatti lasciato il segno, come testimoniano i risultati delle politiche, che hanno visto il Pdp ridurre la propria maggioranza parlamentare dal 77% a poco più del 50%. La perdita di consensi è l’effetto atteso delle dinamiche che si sono sviluppate conseguentemente al lungo periodo di malattia che ha colpito il predecessore di Jonathan, Umaru Yar’Adua, fino a condurlo alla morte nel maggio del 2010. Dopo la scomparsa di Yar’Adua, musulmano del Nord al suo primo mandato, e l’assegnazione della carica presidenziale all’allora vicepresidente Goodluck Jonathan, cristiano del sud, la volontà dello stesso Jonathan di candidarsi alle presidenziali del 2011 ha spezzato l’accordo interno al Pdp in base al quale la massima carica dello Stato doveva essere assegnata alternativamente tra il nord e il sud ogni due mandati. Si è arrivati a un duro scontro tra le élite musulmane del nord e i sostenitori di Jonhatan, tanto da far ritenere che il vero passaggio decisivo per il futuro del paese sia stato rappresentato dalle primarie del Pdp, nelle quali Jonathan è riuscito a battere, non senza polemiche, il candidato del fronte settentrionale, Atiku Abubakar. Come quasi sempre accade in Africa Subsahariana, alla base di ogni scenario politico vi sono i delicati equilibri etnici che caratterizzano la popolazione: lo scorso 12 novembre, il già citato candidato alla presidenza Nuhu Ribadu, in un’intervista all’Economist, dichiarava: “per la prima volta il partito di governo ha dei problemi seri. Goodluck Jonathan viene da un gruppo etnico molto piccolo...anche se fosse il miglior candidato possibile, purtroppo la Nigeria settentrionale non lo accetterebbe. Non è eleggibile”. La dichiarazione di Ribadu fotografa la complessità del contesto sociale nigeriano, caratterizzato dalla difficile coesistenza di oltre 250 etnie, le cui rivalità non si esauriscono nella frattura tra il nord prevalentemente musulmano e il sud a maggioranza cristiana. A dominare la scena sono i tre gruppi etnici più numerosi: gli Hausa-Fulani, musulmani del nord, gli Yoruba, cristiani del sud-ovest, e gli Igbo, protagonisti del tentativo di secessione della regione sud-orientale nel 1967 (da cui la guerra del Biafra). Jonathan appartiene invece agli Ijaw, etnia maggioritaria nella regione meridionale del Delta del Niger, ma fortemente minoritaria a livello nazionale. Molti accostano l’ascesa di Goodluck Jonathan più al significato del suo nome di battesimo che alle sue reali doti politiche: zoologo di professione, nel 2003 assume la carica di vicegovernatore dello stato di Bayelsa, nel Delta del Niger, per poi nel 2005 diventarne il primo cittadino in seguito alle dimissioni dell’allora governatore, accusato di corruzione. Nel 2007 il Pdp lo sceglie quale vicepresidente a fianco di Yar’Adua, fino a quando la sorte che ha colpito quest’ultimo non ha consegnato a Jonathan la poltrona presidenziale. Sempre al posto giusto al momento giusto, Goodluck si è quindi ritrovato alla guida del più popoloso paese africano senza mai essere stato eletto. I principali sfidanti sono entrambi originari delle regioni settentrionali e appartenenti all’etnia dominante degli Hausa-Fulani. Per questo, Buhari e Ribadu hanno tentato fino all’ultimo di formare un unico fronte per opporre un solo uomo del nord a Jonathan. Il tentativo è però fallito di fronte al rifiuto di Ribadu di lasciare il campo libero al più esperto Buhari. Ciò a fronte della maggiore percentuale di voti raggiunta dal suo Acn alle rappresentative (20%), rispetto a quella ottenuta dal Cpc di Buhari (14%). Tuttavia Buhari è da molti ritenuto l’uomo politico più popolare nelle regioni settentrionali, in grado di raccogliere intorno a sé il consenso di quella parte del paese che riteneva di dover esprimere il candidato presidente del Pdp. Inoltre ha già tentato la corsa alla massima carica dello stato nel 2003 e nel 2007 uscendone sconfitto. È però opinione abbastanza diffusa che senza le irregolarità universalmente rilevate nei precedenti turni elettorali Buhari avrebbe potuto seriamente insidiare le vittorie di Obasanjo (2003) e di Yar’Adua (2007). Il mancato accordo tra i due sfidanti potrebbe quindi spianare la strada a Jonathan. Qualora sopra la testa del nuovo presidente ci fosse ancora quel cappello, simbolo Ijaw, dal quale Jonathan mai si separa, questo potrebbe peggiorare la situazione soprattutto nel nord del paese. E’ sempre attiva, infatti, la setta di estremisti islamici del Boko Haram, mentre nello stato centrale di Plateau continuano gli scontri tra cristiani di etnia Beron e musulmani appartenenti al gruppo etnico Fulani. Tali episodi di violenza vanno interpretati proprio alla luce della competizione politica, andando quindi oltre il contrasto religioso. D’altra parte, dopo le bombe fatte esplodere ad Abuja lo scorso primo ottobre durante le celebrazioni del cinquantenario dell’indipendenza dai ribelli del Mend, il Delta del Niger sembra in attesa del risultato delle elezioni. Laddove Jonathan fosse sconfitto, sono in molti a scommettere che la relativa pacificazione raggiunta attraverso il programma di amnistia promosso da Yar’Adua e implementato dall’attuale presidente svanirebbe nel nulla, lasciando spazio a una nuova fase di intensa ribellione contro il potere centrale. La Nigeria da troppo tempo è in attesa di realizzare le proprie enormi potenzialità: nonostante le risorse energetiche (primo produttore di petrolio in Africa, quinto fornitore degli Stati Uniti) e umane (oltre 150milioni di abitanti e un’età inferiore ai 19 anni), il 70% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà, mentre lo Human Poverty Index colloca il paese solo in 142° posizione sui 169 presi in considerazione. Il compito principale del nuovo presidente sarà quindi quello di realizzare una politica di distribuzione della ricchezza più equa e consapevole, che sradichi le dinamiche alla base del reclutamento dei giovani nei gruppi armati che ancora caratterizzano lo scenario politico e sociale nigeriano". (Davide Matteucci-Limes)

Perché? Boh!

Che l'Italia sia ormai ad una specie di Caporetto è evidente. C'è da una parte una banda di ladroni viziosi che ha occupato la democrazia, i media, i gangli del potere, accontentato la chiesa cattolica che tace come storicamente ha sempre saputo fare, cavalcando la paura spinti da una lega razzista ed incapace, e dall'altra una crescente indignazione che non riesce a trovare sbocchi e rappresentatività che non si sa dove sfocierà. O le forze sane del Paese si uniranno per arginare questa degenerazione o si arriverà ad una sicura rivoluzione di cui non sono ben chiari i contorni. Il tappo ormai sta per saltare. "Le notizie della settimana sono queste:1. Berlusconi ha dichiarato alla stampa estera che alla fine della legislatura nel maggio del 2013 non si candiderà più come capo del governo ma resterà leader del suo partito.2. Ventiquattro Paesi dell'Unione europea su ventisette hanno respinto la richiesta italiana di accogliere gli immigrati sbarcati sulle nostre coste. A fianco dell'Italia sono rimaste Malta e la Grecia.3. Il piano economico e finanziario preparato da Tremonti per il prossimo biennio prevede una crescita del Pil dall'1 all'1,6 per cento. La disoccupazione e la pressione fiscale resteranno ferme sulle posizioni attuali. Il debito pubblico si è nel frattempo attestato al 120 per cento e non diminuirà fino al 2014.4. La guerra contro i giudici deve proseguire a ritmo serrato: dopo la prescrizione breve sarà la volta della legge sulle intercettazioni e comincerà l'iter parlamentare della riforma generale della giustizia.Come si vede, il panorama politico è al tempo stesso agitato e immobile.Diciamo che è il tremito d'un organismo paralizzato e dura così da due anni.La prospettiva, almeno per quanto riguarda l'economia e l'immigrazione, è che si andrà avanti così per altri due anni.Il governatore della Banca d'Italia avverte che in queste condizioni ci vorranno cinque anni per uscire dalla crisi attuale.Per poterne uscire nel 2013 sarebbe necessaria una crescita del Pil del 2 per cento in ciascuno dei due anni: obiettivo possibile ma soltanto con una politica economica diversa da quella attuale.Chi viaggia all'estero e incontra persone di altri Paesi con le quali ha rapporti di amicizia o di affari, riferisce la domanda che gli viene fatta in ogni occasione: perché Berlusconi è ancora al governo e riscuote ancora la maggioranza relativa dei consensi? Il viaggiatore non sa rispondere.La stessa domanda ce la poniamo da tempo anche noi, sebbene essa si sia notevolmente ridotta negli ultimi mesi. Ridotta, ma ancora consistente nel Paese e in Parlamento.Come si spiega?La risposta è contenuta in due diverse narrazioni di quanto accade in Italia, inconciliabili tra loro. Il Paese è dunque irrimediabilmente spaccato in due parti che non comunicano?In realtà il Paese è diviso in tre parti e la terza è composta da chi ha perduto ogni interesse ad occuparsi di questo problema. La situazione è dunque terribilmente seria: stasi economica, isolamento in Europa, Paese diviso in tre parti quantitativamente equivalenti. Una palude, con i miasmi e i malanni d'ogni palude. Di qui una seconda domanda: come uscirne?Pisanu e Veltroni hanno indicato un modo: un nuovo governo sostenuto da tutti coloro che in Parlamento e nel Paese vedono i rischi di questo agitatissimo immobilismo e decidono di uscirne unendo le forze per riscrivere insieme le regole provocando una "discontinuità" rispetto a quanto finora è accaduto.La parola "discontinuità" significa politicamente una rottura con la situazione attuale. Che l'abbia pronunciata Veltroni non è una notizia ma che l'abbia scritta e firmata Pisanu, senatore del Pdl e presidente della Commissione antimafia, questa sì, è una notizia. Nel lessico dei seguaci dell'"Amor nostro" probabilmente sarà definita un "golpe" o almeno un para-golpe o un proto-golpe. Non Badoglio, ma Pisanu.Che cosa ne pensano i poteri forti? Che cosa ne pensa la Chiesa? Ci vuole una premessa, per quanto ovvia, in questi tempi di vistosa confusione lessicale: la discontinuità non può aver luogo senza che emerga una maggioranza parlamentare diversa da quella attuale. E un'altra premessa: qualora quella nuova maggioranza emergesse, spetterebbe al presidente della Repubblica decidere se dar luogo ad un nuovo governo senza por fine alla legislatura oppure consultare il corpo elettorale.Nel 1994, quando la Lega decise di ritirarsi dal governo passando all'opposizione dopo appena cinque mesi di esperimento, la legislatura continuò fino al '96.L'ossessione del ribaltone ancora non c'era per la semplice ragione che costituzionalmente il cambiamento di alleanza da parte di un gruppo parlamentare è pienamente legittimo e rientra nella normale dialettica democratica. Del resto in questa legislatura di ribaltoni ne sono già avvenuti parecchi: Fini è stato cacciato dal Pdl ed ha formato un partito che si è dissociato dalla politica del governo; alcuni parlamentari che l'avevano seguito hanno poi cambiato opinione tornando nel partito d'origine; altri parlamentari eletti con partiti di opposizione hanno varcato la soglia e sono passati con la maggioranza.Nessuno ha invocato la fine della legislatura per questo motivo.* * *Esaurite le premesse procediamo con l'analisi delle forze in campo. Gli imprenditori, i rappresentanti dei lavoratori, la gerarchia cattolica, i movimenti ecclesiali, l'opinione laica, gli interessi e i sentimenti del Nord, gli interessi e i sentimenti del Centro-Sud.La Confindustria reclama da tempo una politica orientata verso la crescita della domanda, dell'occupazione, degli investimenti e dei consumi. Tanto più urgente in una fase di crescente inflazione globale, di aumento del tasso di interesse e di un tasso di cambio dell'euro che penalizza fortemente le esportazioni.Negli ultimi tempi questa posizione della Confindustria si è radicalizzata, con l'adesione pressoché unanime delle imprese grandi, medie e piccole. Queste ultime finora avevano considerato con favore e speranza le promesse berlusconiane, ma negli ultimi tempi le speranze sono appassite e il favore è venuto meno.Analoghi mutamenti sono avvenuti nell'ampio settore delle costruzioni (Ance) e nelle organizzazioni dei commercianti e degli artigiani. Gli interessi di queste categorie sono penalizzati dalla politica del rigore senza crescita. Ciò non vuole necessariamente significare che le intenzioni di voto di queste categorie siano cambiate; la paura dei "comunisti" e degli immigrati gioca in favore della continuità politica e non della discontinuità. Ma quando è leso l'interesse, la tenuta ideologica diventa friabile e può favorire il mutamento delle intenzioni di voto soprattutto in favore dell'astensionismo.Per quanto riguarda le forze del lavoro, il ragionamento è analogo salvo l'assenza di elementi ideologici. Sono molti i lavoratori e i pensionati che passarono da sinistra a destra nelle scorse occasioni elettorali, sedotti dalle promesse e dalle capacità seduttive di quella vera e propria macchina di voti che è il Grande Comunicatore. Ma il problema dei "comunisti" per loro non si pone e quello della sicurezza anti-immigrazione ha un peso assai minore rispetto ad altri ceti. Il problema dei lavoratori è il lavoro. Se manca o si devalorizza gli effetti prima o poi si vedono e infatti cominciano a vedersi.Il Sud è terra incognita per un motivo evidente: è la parte del Paese socialmente meno strutturata. La classe dirigente locale è sempre stata "ballerina", il lavoro difetta, l'iniziativa imprenditoriale è scarsa, il credito di difficile accesso, le infrastrutture sono miserevoli e i trasporti ancora peggio.Dove manca il radicamento degli interessi suppliscono radicamenti alternativi: la clientela, le organizzazioni malavitose. Aumenta l'emotività e contemporaneamente l'indifferenza politica. Il combinato di questi elementi rende appunto incognita la risposta politica meridionale anche se l'opinione pubblica strutturata (quel poco che esiste) è particolarmente reattiva allo sradicamento sociale e quindi molto sensibile all'etica pubblica. Può sembrare un paradosso ma è proprio nell'ambiente sociale più degradato che il desiderio di un'etica pubblica più rigorosa ed un salto di qualità nell'efficienza e nell'innovazione si manifestano con maggiore intensità.Questa apparente contraddizione va guardata con particolare cura dalle forze politiche che puntano sulla discontinuità.* * *Il Nord invece non è terra incognita. Gli interessi sono ben radicati ed anche l'ideologia. Il nordismo è ormai un modo di pensare e di sentire che accomuna le genti della grande pianura dove scorre il Po, la stella cometa che ha la sua testa tra Varese Milano e Bergamo e la coda luminosa che s'irradia fino a Udine e Treviso da un lato e Mantova Ferrara e Rimini dall'altro, fino alle propaggini della costa adriatica marchigiana. Ci sono differenze e rivalità in questa ampia superficie che produce il sessanta per cento del reddito nazionale e ospita il quaranta per cento della popolazione, ma coincidono le priorità: libera impresa, regole al minimo livello, investimenti pubblici e infrastrutture come prima scelta dello Stato, Comuni e Regioni fiscalmente e istituzionalmente autonome, ricchezza reinvestita sul territorio, immigrazione condizionata all'offerta di lavoro.La Lega costituisce il cemento e fornisce l'ideologia, ma non è esportabile, perciò la sua compromissione con il governo nazionale non è popolare. La condizione ideale del leghismo è il federalismo inteso come confederazione.Il nordismo confederato rappresenta una metà degli abitanti di quei territori e molto meno della metà dei giovani. I giovani sono sempre più cosmopoliti e sempre meno attratti dalle patrie, grandi o piccole che siano.Non amano la ghettizzazione né le tradizioni. Vogliono successo, ricchezza, competizione e cultura. Sono propulsivi e dinamici. Il mito di Pontida non è cosa loro, Bossi e Calderoli non sono i loro punti di riferimento. Forse il Berlusconi giovane sì, quello di oggi non più o sempre meno.Se si aggiunge che la Chiesa è entrata nell'ordine di idee che la palude attuale non sia giovevole né ai suoi valori né ai suoi interessi, il quadro complessivo sembrerebbe favorevole ad un'evoluzione che privilegi la discontinuità rispetto al presente e pericolante assetto. Ma a questa salutare evoluzione fa ostacolo una difficoltà non da poco ed è una natura molto diffusa nella nostra gente. Francesco De Sanctis ne parla a lungo in un suo saggio e definisce quella natura come l'uomo del Guicciardini perché fu appunto lo storico fiorentino che meglio di tutti ne fece il racconto. Lo fece nelle "Historiae fiorentinae" e nei "Ricordi". Ma valeva ancora, quel racconto, tre secoli dopo, quando ne parlava De Sanctis nelle sue lezioni all'Università di Napoli. Purtroppo vale ancora oggi."Mancava la forza morale; supplì l'intrigo, l'astuzia, la simulazione, la doppiezza. Ciascuno pensava al proprio particulare sì che nella tempesta comune naufragarono tutti. La consuetudine nostra non comportava che s'implicassi nella lotta tra i principi, ma attendesse a schierarsi, ricompagnandosi con chi vinceva secondo le occasioni e le necessità. Noi abbiamo bisogno di intrattenerci con ognuno dè potenti e mai fare offesa ad alcun principe grande".E il De Sanctis così conclude questa lunga citazione guicciardiniana: "Non c'è spettacolo più miserevole di tanta impotenza e fiacchezza in tanta saviezza. La razza italiana non è ancora sanata da questo marchio che ne impedisce la storia. L'uomo del Guicciardini lo incontri ancora ad ogni passo; ci impedisce la via se non avremo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza".È un obiettivo da puritani? Oppure la condizione necessaria per far vivere una società moderna dove libertà e giustizia siano equilibrate e consentano di affermarsi al merito onestamente guadagnato?". (Eugenio Scalfari-La Repubblica) "Per il professor Carlo Federico Grosso, uno dei più celebri avvocati penalisti italiani, le accuse sempre più violente del governo alla magistratura sono “attacchi ai principi cardine dello stato di diritto, che colpiscono ogni giorno la democrazia. Che, a questo punto, sta per crollare”. Professor Grosso, come ha reagito vedendo i manifesti con su scritto “Via le Br dai tribunali”? Sono allibito, è un atto vergognoso. Minacciare così i magistrati è intollerabile. Soprattutto perché proprio loro sono stati vittime dei brigatisti: penso tra gli altri a Guido Galli e a Emilio Alessandrini , assassinati da un commando di Prima linea proprio a Milano. Il ministro della Giustizia Alfano si è dissociato dai manifesti solo ieri, dopo oltre un giorno di silenzio. Alfano è lo stesso che ha messo il suo nome su una legge dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Anche quando parla tempestivamente, spesso lo fa a sproposito. Dunque non mi stupisco più né per ciò che dichiara né tanto meno per i suoi silenzi. Ieri Berlusconi ha ribadito che la magistratura è eversiva. E altri due esponenti del Pdl, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, hanno invocato sanzioni contro i pm di Milano. La preoccupa il clima che si sta creando? Certo. Si tratta di iniziative assolutamente intimidatorie, deprecabili. Lei è firmatario di un appello scritto dal professor Giorgio Marinucci contro la prescrizione breve. La definite “uno sfregio al principio di uguaglianza davanti alla legge”. La prescrizione breve è palesemente incostituzionale, viola l'articolo 3 della Carta. Infatti fa dipendere il tempo necessario per estinguere il reato non dalla gravità del crimine commesso, ma dalle qualità personali. Cosa c'è di sbagliato se un incensurato riceve un trattamento privilegiato rispetto a un recidivo? Facciamo un esempio: c'è un incensurato che compie una truffa gravissima, per miliardi di euro, alla Bernie Madoff. Poi c'è un pregiudicato che, recidivo, ruba un portafogli con dentro pochi centesimi. Ci sarà molto meno tempo per celebrare il processo del nostro Madoff, che probabilmente verrà prescritto, rispetto al processo per il furtarello. E poi c'è da fare una considerazione storica. Quale? Il diritto penale “d'autore”, in contrapposizione a quello del reato, è tipico dei sistemi autoritari. Solo lì si selezionava la gravità della responsabilità penale in base al soggetto, alla personalità, magari alla categoria sociale invece che basandosi su ciò che avevano fatto. I liberali invece sanzionano considerando la gravità dell'offesa. Questa selezione della durata della prescrizione in rapporto al tipo di autore era già stata realizzata dalla ex Cirielli. La norma Paniz peggiora le cose. Ma la prescrizione breve, minimizza il governo, accorcerà i processi soltanto di qualche mese. Sarà un incentivo a delinquere. Ed è dannosa proprio perché si innesta sull’incredibile ex Cirielli, che ha già dimezzato i termini di prescrizione. Diminuirli ancora è gravissimo, e inciderà soprattutto sui reati di media portata, che si estinguono dopo 7 anni e mezzo: togliere 6 mesi è tanto, e sui reati come la corruzione avrà un effetto devastante. Anche perché si tratta di crimini che spesso si scoprono alcuni anni dopo che sono stati commessi. Tra le leggi ad personam ritiene più grave la prescrizione breve o il processo breve? Servono a esaudire due desideri diversi. La prescrizione breve blocca il processo Mills prima di una condanna di primo grado, e l'effetto generale sarà un incentivo a delinquere. Mentre il processo breve, per com’era stato pensato all’inizio, era demenziale: poneva blocchi rigidi sulla durata massima del primo, secondo e terzo grado di giudizio. Se non venivano rispettati, si cancellava il processo, qualunque fosse la gravità del reato contestato. Nella versione approvata, invece, se non si rispettano i limiti imposti il processo può continuare lo stesso. C’è però un particolare molto preoccupante: hanno previsto che se il giudice, per esempio in appello, supera i rigidi tempi previsti, il capo del suo ufficio deve comunicarlo al Guardasigilli e al procuratore generale della Cassazione. Cioè ai due titolari dell'azione disciplinare. Quindi sarà Alfano a decidere se punire o meno il magistrato? Esatto. Hanno trovato un modo per dare al governo più poteri nella lotta ai magistrati. Prendiamo un processo per aggiotaggio: basta che vengano chieste 4 o 5 perizie e sicuramente si sforeranno i tre anni previsti per il primo grado di giudizio. Il giudice, anche se del tutto incolpevole, può essere sottoposto ad azione disciplinare, a discrezione del ministro. È uno dei tanti modi per intimidire la magistratura. Come se ne esce secondo lei? Ci vorrebbero nuove elezioni e una maggioranza di italiani che, avendo capito la situazione, scegliesse una classe politica all'altezza del compito di governo. Così da riportare il Paese a un livello di civiltà". (Beatrice Borromeo-Il Fatto Quotidiano) "Pirandello è stato il primo a notare il grande espediente: se il nodo è inestricabile, fingiti pazzo. La tua finzione, specialmente se estrema, potrebbe indurre gli altri a tradirsi, a rivelare almeno in parte quel che hanno fatto e quel che vogliono fare. Alberto Asor Rosa, il grande italianista – scambiato, a causa del suo silenzio politico negli ultimi tempi, come un intruso nelle pagine politiche dei giornali di questo strano periodo – ha deciso un colpo di scena. Avrà ascoltato gli On. Corsaro e Cicchitto, nella seduta notturna della Camera dei deputati, tutti al lavoro, parlamentari e membri del governo, Esteri e Difesa, non uno assente, al solo scopo, mentre divampano guerre e si addensano pericoli mortali, di salvare il loro primo ministro molto ricco e molto imputato, e si è chiesto ad alta voce: “Ma perché non chiamate i Carabinieri?” (Il Manifesto, 13 aprile). In effetti, chi avesse ascoltato l’On. Corsaro paragonare i giudici di Milano agli assassini di Aldo Moro, e l’On. Cicchitto attaccare con ferocia la vicepresidente della Camera Bindi perché si era permessa di ricordare un vecchio trascorso del vibrante Cicchitto, la sua adesione e partecipazione a una loggia massonica segreta detta P2 (ragione che aveva indotto il presidente della Repubblica Pertini a negare il saluto e rifiutare l’ingresso in Quirinale) si sarebbe reso conto che un evento pazzesco stava svolgendosi quella notte alla Camera dei deputati del Parlamento Italiano. Non vorrei speculare sul sincero slancio di follia di un italiano stordito ed esasperato dopo 17 anni di venerazione del miliardario e di inchino continuo, dalle grandi intelligenze a Scilipoti, verso le sue volontà, giochi e capricci, e soprattutto interessi; oppure sul freddo e attento letterato che sceglie di essere Enrico IV pur di smuovere almeno l’attenzione di alcuni. Di certo l’obiettivo è raggiunto. Si può parlare liberamente, e anche con sdegno, di Asor Rosa come di un uomo impazzito che vuol mandare i Carabinieri in Parlamento (dunque, colpo di Stato), benché un letterato i Carabinieri li possa soltanto descrivere. MA INTANTO, fatalmente, ha richiamato l’attenzione su una notte parlamentare che resterà un esempio. Perché è stata una notte senza false illusioni e senza finte bi-partigianerie. L’opposizione, e in particolare il Pd, non ha esitato su nulla, non ha commesso errori od omissioni, ha usato con bravura ogni strumento e ogni espediente, non ha taciuto mai e non ha rinunciato mai, senza una assenza e con molta aspra chiarezza in ogni argomento. Ma è stato come parlare con ansia e ragione e senso del pericolo ai membri di una setta. Niente a che fare col Parlamento. Niente a che fare con “gli eletti dal popolo” visto che si tratta ormai di una legione straniera, di eletti dappertutto e di truppe mercenarie. È stata dunque una notte in cui si sentivano gli echi di due film profetici che hanno segnato la cultura (purtroppo non la politica) italiana: Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, e Il Caimano di Nanni Moretti. In entrambi la fine viene dopo la fine, ovvero il regime crolla, se crolla, solo dopo il compimento di tutto il suo tragico danno. Infatti davanti a Montecitorio in quelle notti c’era una folla che, di tanto in tanto, una Santanchè o un La Russa uscivano a provocare, con spunti di follia più autentica e meno pirandelliana, anche perché si trattava di provocare i congiunti dei morti nel rogo della Moby Prince o del terremoto de L’Aquila. Dispiace e imbarazza che “penne terze” come vorrebbe essere, ad esempio, Pierluigi Battista, scriva la mattina dopo: “L’elogio del golpe democratico stilato da Alberto Asor Rosa è l’ultima figura di un sentimento apocalittico che alberga in una opposizione drammaticamente incapace di diventare maggioranza” (Il Corriere della Sera, 15 aprile). Senza accorgersi del vero spettacolo di follia: una maggioranza che si comporta con disperazione distruttiva e rinuncia a governare pur di saldare i conti giudiziari del suo leader, e impedisce al suo governo di governare e lo fa anche come spettacolo, dunque in modo clamorosamente e vistosamente folle: eccolo lì tutto il governo, tutto in aula, decine di ore, giorno e notte, tutti fermi, tutti zitti, nel tentativo mortale, finora in parte riuscito, di abolire ogni ruolo o funzione del Parlamento e gettare direttamente il governo contro la magistratura, un modo per autodistruggersi mentre il mondo, che ha preso nota, ha cominciato a escludere l’Italia persino dalla finzione (da tempo era solo una finzione) di contare qualcosa nei consessi e nelle decisioni internazionali. Adesso si lascia intendere chiaramente che l’Italia di Arcore non può stare con Paesi e governi normali (abbiamo perso decoro e dignità prima ancora della libertà formale) e questi governi normali firmano apertamente rilevanti documenti mondiali lasciando che il governo italiano li legga sui giornali. Dunque, vorrei dire a Pierluigi Battista e ai commentatori allibiti per il commento azzardato di Asor Rosa, che il peggio accade quando la maggioranza usa se stessa e il suo rilevante peso come arma contro le istituzioni, dalla magistratura al capo dello Stato. Non volete credere al mio richiamo a Pirandello come chiave di lettura della esasperata frase di Asor Rosa? Domandatevi se il proclama del vicepresidente dei deputati di maggioranza Corsaro alla Camera, in pieno dibattito sulla legge della prescrizione breve, non sia ben più pericoloso, per luogo, autorità e tempo: ha iniziato la strategia di equiparare i giudici che osano processare il suo capo agli assassini di Aldo Moro. Quella strategia si è poi sviluppata nei manifesti che hanno tappezzato Milano, e nella autorevole e folle dichiarazione (folle senza alcun alibi pirandelliano, dati gli autori) dei senatori Gasparri presidente e Quagliariello (vicepresidente) dei senatori del Pdl. Accusano con veemente violenza la Procura di Milano e prontamente ottengono dal ministro della Giustizia Angelino Alfano, autore di tutta la montatura giudiziaria, di inviare ispettori a Milano. Ovvero : il ministro della Giustizia contro i giudici che tentano carte alla mano, di processare il primo ministro. Non pensate che a questo punto anche tanti altri cittadini si saranno detti l’un l'altro, in un momento di esasperazione : “Ma non si possono chiamare i Carabinieri?”, un modo per dire: ma dovremo restare per sempre in questa gabbia di mentitori, fomentatori e pazzi (pazzi perché unici nello sforzo di distruggere ciò che potrebbero governare)? C’è sempre un buon dottore, in certe corsie infernali di ospedali caduti nel caos. E adesso, in Italia, si fanno avanti due primari della politica, Veltroni (Pd) e Pisanu (Pdl) e dicono questa frase, che dovrebbe essere la cura miracolosa, e tu te la fai ripetere perché hai il dubbio che si parli dello stesso luogo, dello stesso Paese, della stessa malattia. Dunque, Berlusconi, dopo il bacio alle statuette di Priapo, ha appena fatto sapere che il fine ultimo della sua vita umana, imprenditoriale e politica è (cito) “la distruzione di questa magistratura”, si è appena messo contro l’Europa, fuori della Nato ed escluso da ogni rapporto dignitoso con gli altri leader d’Europa e del mondo. Ha voluto persino aggiungere, fuori testo, il suo odio per la scuola pubblica italiana, che invece avrebbe il compito di governare, e ha dichiarato l’intento di spostare i fondi disponibili verso scuole private “anticomuniste”. Siamo dunque, ovviamente, non solo fuori dalla legalità, come si dice sempre, ma fuori dalla normalità psichica, fatto grave quando avviene a chi detiene il potere. Ma i due primari dicono: “Bisogna creare le condizioni politiche e istituzionali perché si torni al confronto positivo sui veri problemi degli italiani”. Quella parola, “ritorno” rivela una nostalgia purtroppo mal posta. Quando mai, con Berlusconi al potere o capo di una violenta e incessante opposizione, c’è stato un “confronto”? Quando mai “sui problemi degli italiani”? Provoca angoscia e disorientamento sentir dire che “i problemi non sono ideologie, sono fatti. Vince chi indica la soluzione migliore.“ Siamo sicuri che sia così? Da quando? Qui risulta (e ne parla la stampa mondiale) che in Italia vince chi ha in mano tutte le televisioni e controlla tutta le informazioni, e spadroneggia con il conflitto di interessi. Sì, lo so, sono le stesse cose che dicevamo educatamente (ma allora, almeno, insieme) nel 1996. La tragedia è questa". (Furio Colombo-Il Fatto Quotidiano) "“Oggi 29 gennaio 1979 alle ore 8:30 il gruppo di fuoco Romano Tognini ‘Valerio’ dell’organizzazione comunista Prima linea ha giustiziato il sostituto procuratore della repubblica Emilio Alessandrini… uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in questi anni a rendere efficiente la procura della repubblica di Milano... nel tentativo di ridare credibilità democratica e progressista allo Stato”. Con questo volantino, 31 anni fa, i terroristi rossi di Prima Linea rivendicavano l’assassinio del pm milanese che in quel momento indagava sulla strage nera di Piazza Fontana. Cioè tenevano a far sapere di averlo eliminato proprio per i suoi meriti, perché Alessandrini era bravo, onesto e con la sua competenza, professionalità e dedizione onorava lo Stato e le istituzioni che i brigatisti non riconoscevano, anzi volevano abbattere. Oggi, a non riconoscere lo Stato e le istituzioni e ad abbatterli un pezzo al giorno, non sono più i terroristi, fortunatamente estinti: sono il presidente del Consiglio e la sua vasta corte di servi felici, alleati venduti e figuranti a gettone. E sono molto più pericolosi dei terroristi (che finirono involontariamente per rafforzare il sistema, mentre quelli lo picconano dall’interno), perché nessuno – tranne poche e flebili voci – ne denuncia la pericolosità, perché controllano militarmente le istituzioni e le televisioni, e soprattutto perché hanno l’immunità e purtroppo non possono essere arrestati. Al posto dei mitra, usano come armi le leggi, le tv, i giornali. E, dall’altro giorno, anche i manifesti anonimi, come quelli apparsi a Milano con uno slogan che fa impallidire, per carica eversiva, i volantini di Prima Linea: “Via le Br dalle procure”. Il Corriere della Sera, che appena qualche testa calda disegna una stella a cinque punte nel cesso di una fabbrica lancia l’allarme in prima pagina contro il ritorno del terrorismo, ha relegato la notizia a pagina 13   in basso a destra. Il giorno prima invece, aveva sbattuto in prima pagina Asor Rosa, gabellandolo per un novello Junio Valerio Borghese pronto a marciare su Roma al grido di “Tora Tora”. Ora, di quei manifesti firmati “Associazione dalla parte della democrazia”, è ignoto solo il tipografo. L’ispiratore e l’autore dei testi si chiama Silvio Berlusconi, che ieri ha paragonato i magistrati (quelli, si capisce, che si occupano di lui) a un’“associazione a delinquere”, s’è vantato di aver imposto processo e prescrizione breve “per tutelarmi” (dalla Giustizia) e tre giorni fa, davanti alla stampa estera, ha farneticato di “giudici brigatisti”. Nemmeno una sillaba è trapelata dal Quirinale contro questi proclami terroristici. Con ben altra determinazione avevano reagito Scalfaro e Ciampi, quando in passato B. aveva vomitato analoghi deliri: “In tutti i settori ci possono essere corpi deviati. Io ho una grandissima stima per la magistratura, ma ci sono toghe che operano per fini politici. Sono come la banda della Uno bianca (14.3.96)”, “Come anni fa la sinistra si è saputa distinguere da chi faceva la lotta armata, anche oggi deve dividere la propria responsabilità da chi fa lotta politica con le sentenze. La sinistra deve isolare certi pm come fece con le Brigate rosse” (8.8.98), “Negli anni ‘70 c’era la volontà di abbattere lo Stato borghese con l’uso della violenza. La sinistra seppe distinguere la sua responsabilità da quella delle Br. Spero che oggi faccia la stessa cosa nei confronti dei giudici giacobini” (17.3.99), “Resisteremo ai colpi di giustizia, di piazza e di pistola che non fanno parte della democrazia” (26.3.2002). Significativamente, la prima di queste frasi fu pronunciata a commento dell’arresto del giudice Squillante, il cui nome era sul libro paga di B. e Previti assieme a quello di Vittorio Metta (vedi alla voce Mondadori). Per lui gli unici giudici buoni sono quelli corrotti: quelli onesti, quelli bravi sono una minaccia. Infatti, in un’altra occasione, li definì “pazzi, antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Quelli sani prendono esempio da lui: fanno i delinquenti". (Marco Travaglio-Il Fatto Quotidiano)

sabato 16 aprile 2011

ThyssenKroup. Quando la legge è uguale per tutti

"Antonio, ti avevano proprio ammazzato. Roberto, eri morto per niente e non per caso. Angelo, è come se ti avessero accoltellato. Bruno, ti accadde quello che succede quando ti sparano in testa. Rocco, la tua vita non se ne andò per disgrazia, ma per colpa di qualcuno. Rosario, sapevano che potevi lasciarci la pelle e non fecero nulla. Giuseppe, tu che sei stato l'ultimo, e hai resistito dentro una paurosa, infinita agonia di venticinque giorni, anche tu hai detto addio alla vita per esatta, precisa, lucida follia di chi forse poteva, doveva evitarlo ma non lo evitò. Ragazzi, ora lo dice anche un Tribunale: vi hanno assassinato, non siete solo morti di lavoro sbagliato.Le sette facce ci guardano, e sembrano ancora più piccole dentro le fotografie sui giornali come al cimitero, minuscoli visi sconfitti, ma ieri sera vincitori. Perché succede una volta ogni milione di anni che i sommersi possano vendicarsi sui salvati, e riescano a ottenere giustizia. Una volta ogni milione di anni, i morti si prendono la rivincita sui vivi. E non lo fanno solo a nome loro, che già ce ne sarebbe d'avanzo: lo fanno anche per tutti gli altri morti caduti dai ponteggi, soffocati nei silos, precipitati nelle fornaci, massacrati dal lavoro nero che, curiosamente, cambia il colore alla morte, perché la morte dei lavoratori senza diritto si chiama invece morte bianca. Una volta ogni milione di anni, i piccoli operai scomparsi nella voragine, spazzati via dal fuoco come cenere, cancellati dalla memoria comune che ormai considera solo le cose, e il loro valore materiale, e il loro prezzo sul mercato, e mai il costo umano che è stato necessario per produrle e per metterle in vetrina, una volta ogni milione di anni i piccoli operai scomparsi dall'orizzonte del lavoro e delle loro case, delle loro famiglie, ottengono quello che è semplicemente giusto. Non solo dovuto. Giusto.La chiamavano la fabbrica dei tedeschi, perché la ThyssenKrupp è una multinazionale che mette soggezione a cominciare dal nome, pieno di spigoli come un ordine urlato da un soldato cattivo dentro un film di guerra. Quel suono così sinistro, pure nella lingua bellissima di Goethe e Thomas Mann. In quella fabbrica, i morti viventi si rendono conto del loro destino, sono ciechi perché il fuoco ha bruciato gli occhi però capiscono, chiedono ai compagni accorsi di rassicurare le famiglie, in fondo stanno parlando e ragionando, mica si muore così. Ma come avrebbero mai potuto sette piccoli operai morti, bruciati lentamente come candele, consapevoli della vita che se ne scappava come lo sguardo, come la voce, come la sensibilità della corpo e delle mani, come le orecchie che più non portano alcun rumore quando stai proprio per andartene, come sarebbero riusciti a sconfiggere i capi tedeschi, e i loro soldi e i loro avvocati, e la loro enorme potenza di fuoco? Chi li avrebbe ascoltati? Chi avrebbe reso giustizia alle loro madri, ai padri, alle mogli, alle fidanzate, ai fratelli e alle sorelle, ai figli? Perché Antonio ne aveva tre, di ragazzini, Roberto due, Angelo due, Rocco due. E Bruno, Rosario, Giuseppe detto Mase erano ancora giovani ma non per desiderare di averne, e di essere padri, e di poter tornare a casa dal lavoro per incontrare gli occhi di un figlio: la massima ricchezza, forse, su questa terra. Il fuoco invece portò via tutto, il passato come il presente, ma soprattutto il futuro, i sogni, i progetti, aprire un bar, diventare camionista, perché i ragazzi della Thyssen volevano scappare, sapevano bene che quella era una bara di acciaio e cemento, non solo una fabbrica.Tre anni e mezzo di processo, e tante volte i presenti hanno chiesto giustizia, talvolta hanno anche gridato. Sembrava una folle richiesta, è stata anche una profezia. Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario Giuseppe. La loro morte, così come la loro breve vita è nella storia di Torino, nella storia del lavoro che a volte uccide, ma anche del lavoro da svolgere con vanto e perizia, meglio che si può, stringendo con orgoglio la chiave a stella. Quattro dei ragazzi della "linea 5" sono sepolti insieme, al cimitero Monumentale, come se ancora fossero in catena dentro la fornace. C'è una riga azzurra che separa i loculi dal resto del cimitero, un confine che dovrà servire in futuro a rendere sempre riconoscibili gli operai uccisi dal fuoco in una lontana notte di dicembre.Dalla trappola non fecero in tempo a scappare, ma qualcuno ha lavorato per loro, ha ascoltato le storie senza più voce, ha percorso il sentiero della colpa e della responsabilità, infine ha detto che sì, i tedeschi e i loro sottoposti sapevano, e corsero il rischio, e dunque uccisero. Evitarono di spendere ventimila euro per la sicurezza, tanto la fabbrica sarebbe stato presto chiusa, e sperarono in bene. Così poco, dunque, vale la vita di un uomo? Ventimila euro diviso sette? Forse. Ma poi viene il giorno in cui è un altro il conto che torna, che deve tornare.La vita, quella no, la vita non ritorna. Ma la giustizia, se è vera giustizia, lei non era mai andata via. Lei è come il ricordo di chi ti amò". (La Repubblica)

mercoledì 13 aprile 2011

Noi siamo neri!


"ROMA - Il basket scende in campo contro il razzismo e lancia la campagna 'Vorrei la pelle nera' dopo la vicenda che ha colpito la giocatrice Abiola Wabara. La federbasket ha annunciato che nel prossimo fine settimana i giocatori dei campionati, a partire dalla A, si tingeranno la pelle di nero in segno di solidarietà. L'invito a colorarsi di nero è rivolto anche ai tifosi. "Il basket è sempre stato caratterizzato dalla multirazzialità. I giocatori stranieri e di altre etnie hanno, nel tempo, permesso al nostro sport di crescere e di affermarsi -spiega la Federazione-. La Fip chiede a tutte le componenti del movimento e agli appassionati, nella prossima giornata di campionato, di colorare la propria pelle con un segno nero, ben visibile, in rappresentanza dei colori di tutte le etnie, per sentirci tutti uguali". MENEGHIN - Il modello da seguire, secondo Dino Meneghin, numero uno della Fip, è quello degli Stati Uniti, dove i tifosi razzisti vengono allontanati subito dagli impianti: "Le società li individuino e li caccino, li prendano per la collottola e li portino fuori - ha detto -. Così questi mentecatti capiscono come comportarsi. Non vogliamo che queste cose si ripetano. Purtroppo manca nel regolamento una norma che permetta agli arbitri di fermare le partite in caso di cori razzisti. Dobbiamo lavorarci". MYERS - "E' un peccato che iniziative come queste siano così rare - dice Carlton Myers - . Ma purtroppo anche se avvenissero più spesso non sarebbero lo stesso sufficienti". In passato lui stesso, che da pochi giorni ha dato l'addio al basket giocato, ha portato avanti numerose iniziative contro il razzismo nello sport. "Il fatto che questa sia una giornata 'eccezionale' - sottolinea - la dice lunga sul fatto che si fa qualcosa, ma di tanto in tanto. Queste sono manifestazioni sono certamente utili ma servono provvedimenti reali. Fermare le partite, infliggere dure sanzioni, espellere chi incita alla violenza. Anche perché le partite le vedono anche i bambini, che possono essere influenzati e crescere con le idee sbagliate". IL CASO WABARA - Wabara, 30 anni, italiana di genitori nigeriani, gioca con la maglia della Bracco Geas di Sesto San Giovanni (Milano), formazione di serie A1 femminile. Mercoledì scorso, in occasione di gara 2 dei quarti di finale dei playoff a Como, è stata a lungo insultata da un gruppo di tifosi di casa, che alla fine del match le hanno anche sputato ripetutamente. Gli arbitri non hanno ritenuto di interrompere l'incontro e il giudice sportivo, sulla base del loro referto, non ha preso provvedimenti. Sull'episodio ha poi aperto un'inchiesta la procura federale, sollecitata dalla Federbasket". (La Repubblica)

martedì 12 aprile 2011

Il cemento si sta mangiando l'Italia


"Il cemento si sta mangiando l’Italia, al ritmo di 10.000 ettari di territorio all’anno: ogni 4 mesi è come se nascesse una nuova Milano. Periferie sempre più estese, arterie stradali, maxi-parcheggi e capannoni. Grappoli disordinati di sobborghi residenziali e centri commerciali sorti in mezzo alle campagne. È l’ambiente nel quale vivono 6 italiani su 10.Lombardia, Veneto e Campania guidano la classifica: cresce l’asfalto, la terra soffre, va in crisi il sistema idrogeologico. Mancano regole a tutela del suolo, aumentano i danni ambientali e i costi sociali. È il nuovo allarme lanciato dal rapporto Ambiente Italia 2011, promosso da Legambiente: insieme agli spazi verdi, spariscono ettari preziosi per l’agricoltura, che vanta un export da 26 miliardi di euro. A farla da padrone sono i palazzi: negli ultimi 15 anni si sono costruiti 4 milioni di nuove case. Ma oltre un milione di alloggi resta vuoto. E almeno 200.000 famiglie non riescono a pagare l’affitto o la rata del mutuo.Urbanizzazione selvaggia, sempre più insostenibile. Lo rivela il rapporto realizzato in collaborazione con l’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica, presentato in questi giorni a Milano. Un quadro inquietante del consumo di territorio, che oltre all’ambiente mette in pericolo anche la produzione agroalimentare. Il cemento invade già 2 milioni e 350.000 ettari. Un’estensione equivalente a quella di Puglia e Molise messe insieme: il 7,6% del territorio nazionale, con 415 metri quadri per abitante. Risultato: crescono le superfici impermeabili. Già nel 2007, in città come Napoli e Milano era isolato dall’acqua il 62% del suolo. Il primato è della Lombardia, con il 14% di superfici artificiali. Seguono Veneto (11%), Campania (10,7%), Lazio ed Emilia (9%). A rischio la Sardegna, dove la cementificazione minaccia patrimoni naturali di inestimabile valore.“Il territorio italiano si sta rapidamente metropolizzando”, afferma il presidente INU, Federico Oliva. “Alla città tradizionale si sta sostituendo una nuova città, in cui vive oltre il 60% dell’intera popolazione italiana”. Si vive in condizioni insostenibili: cementificazione, traffico congestionato, nuovi squilibri e fame di spazio pubblico. Principale imputato: la crescita incontrollata delle periferie metropolitane, che divorano ogni anno 500 chilometri quadrati di aree verdi. Un esempio? Roma, il più grande comune agricolo in Europa. Nella città eterna, i complessi residenziali in periferia hanno “mangiato” 4.384 ettari agricoli, il 13% del totale, e 416 ettari di bosco. E il peggio deve ancora arrivare: i piani regolatori di Roma e Fiumicino prevedono di consumare altri 9.700 ettari, più di quanto sia stato urbanizzato dal 1993 al 2008.Per Paolo Pileri del Politecnico di Milano, uno dei curatori del documento, “ad essere erose sono le risorse agricole e di biodiversità, che costituiscono uno dei beni comuni più importanti”. L’Italia è in controtendenza rispetto ai paesi europei dove “sono in atto da tempo politiche ambientali ed urbanistiche incisive contro il consumo di suolo e i suoi costi sociali”. Lo sfruttamento del suolo italiano non produce “solo ferite al paesaggio”, ma “una vera e propria patologia del territorio”. Per questo Legambiente e INU hanno deciso di creare un Centro di Ricerca sui Consumi di Suolo (CRCS). Nella legislazione italiana “mancano ancora regole efficaci sulle facoltà di trasformazione dei suoli”, afferma il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine: “Qualunque sia la politica che una Regione attua per il governo del territorio, riteniamo irrinunciabile che essa sia confortata da un’attività di verifica e monitoraggio, oggi estremamente lacunosa”.Molti comuni piemontesi, stanchi di vedere il proprio territorio invaso da capannoni sfitti, hanno dato vita alla Campagna nazionale Stop al consumo di territorio. “Il consumo di suolo - dichiara il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza – è oggi un indicatore dei problemi del Paese. La crescita di questi anni, senza criteri o regole, è tra le ragioni dei periodici problemi di dissesto idrogeologico e tra le cause di congestione e inquinamento delle città, dell’eccessiva emissione di CO2 e della perdita di valore di tanti paesaggi italiani e ha inciso sulla qualità dei territori producendo dispersione e disgregazione sociale. Occorre fare come negli altri Paesi europei, dove lo si contrasta attraverso precise normative di tutela e con limiti alla crescita urbana, ma anche con la realizzazione di edilizia pubblica per chi ne ha veramente bisogno”. Tra le abitazioni sfitte, 245.142 sono a Roma, 165.398 a Cosenza, 149.894 a Palermo, 144.894 a Torino e 109.573 a Catania. Ma il fenomeno sfugge, perché non ci sono banche dati aggiornate. E la piaga dell’abusivismo si aggiunge alle carenze di pianificazione". (Il Fatto Quotidiano)

lunedì 11 aprile 2011

Colpevole!

Questo piccolo ridicolo uomo che si comporta come l'ultima sequenza del film di Nanni Moretti 'Il caimano' è chiaramente colpevole dei reati che gli vengono attribuiti. Solo un guitto della sua portata, sorretto dai miliardi di euro che in decenni ha rubato agli altri corrompendo giudici, minacciando, facendo finta di dar lavoro mentre stava sfruttando, chiedendo di prostituirsi a chi volesse entrare nel suo mondo di cartapesta che fatturava miliardi aggirando tutte le leggi possibili, attorniandosi di uomini della sua stessa pasta, protetto da mafiosi ed uno stuolo di body gard che solo al capone aveva, insinuandosi nei rivoli del non scritto e non legiferato. Questo satrapo tragicomico, che affitta delle comparse per aggredire i giudici che lo devono giudicare, che ostenta la sua ricchezza acquistando ville qua e là, che dice tutto e il contrario di tutto, che ha ridotto il parlamento a un bivacco di lacché putridi pieni di cocaina e sesso, che ha un consiglio dei ministri con chi ha dormito nelle sue alcove, questo ometto da bar non ha mai pensato alle vittime che ha lasciato sulla sua strada. Sono queste vittime, quelle che gli si sono prostituite, quelle che hanno perso quello che gli era dovuto, quelle che sono state messe alla gogna mediatica dai suoi velinari, quelle oggetto della sua corruzione, che ora chiedono giustizia nelle aule. Per queste vittime esistono le leggi e non per difendere un caimano a cui dovrebbero essere messe solo delle manette e gettate le chiavi. Come si può chiedere a un simile millantatore che possa risolvere problemi come quelli dell'immigrazione, della politica estera, dei lavoratori, degli studenti, dei precari, dell'Italia tutta. Non lo farà mai perché non ne è capace ed è intento soltanto a soddisfare gli infimi desideri che albergano in lui. Quanto male deve fare all'Italia e al mondo questo individuo affinché si decida che è l'ora di liberarci di lui. "L'homme d'Etat entra in aula dalla porticina laterale. Ha gli occhi bui, la faccia contratta. Seminascosto, si trattiene sulla soglia quasi in apnea, prima di affrontare l'emiciclo della grande aula. Silvio Berlusconi s'acconcia la cravatta; sistema la giacca sul ventre; distende il viso raggrinzato in un sorriso stereotipato.Dicono che sia il massetere a fare quel repentino prodigio. Chiedo che cosa è il massetere. Mi rispondono che è un muscolo della faccia, corto e solido, a ridosso della mandibola. Chiedo: bene, ma che cosa c'entra il massetere con il sorrisone che il premier esibisce ora che attraversa trasversalmente l'aula da sinistra verso destra? Mi rispondono che il segreto del suo sorriso inalterabile, di pronto impiego è in quel muscolo, il massetere. Lo controlla come il dito di una mano. Lo irrigidisce a comando, dicono, sollevando appena e senza sforzo il lato destro della bocca e il gioco è fatto perché il volto e gli occhi "si dinamizzano", coinvolgendo tutto il viso. Sarà il massetere allora a mostrare del Cavaliere la finzione di una fisionomia spensierata, quasi di buonumore. Messa su quella, si può far vedere finalmente dal pubblico scarso; dai giornalisti numerosi; dalla corte degli avvocati in toga; dai pubblici ministeri con il capo chino sulle carte che hanno sul banco, per non dargli soddisfazione. Berlusconi simula serenità, quasi una indifferente euforia. Stringe mani come se tutti gli avvocati fossero convenuti lì per salutarlo e proteggerlo; tutto il pubblico per incoraggiarlo; tutti i giornalisti per celebrarlo. Si fa incontro ai procuratori che lo accolgono freddamente. Come un primo attore che non vuole perdere il proscenio, ripiega verso i banchi, le seconde, terze, quarte file degli avvocati. Già guarda sottocchio il suo vero obiettivo, i giornalisti laggiù in fondo. Saranno loro il megafono che documenterà, come ha promesso, la volontà del presidente del Consiglio di farsi processare: "Non ho nulla da temere che le accuse contro di me sono inventate". Con un paio di passi rapidi è già davanti allo scranno che separa i cronisti dagli avvocati. Berlusconi ha pronto il consueto flusso verbale da incantatore da fiera. Sa di poter cavare il massimo del profitto da quelle operazioni vocali sulla psiche degli italiani. Domina l'arena mediatica e la stregoneria gli riesce sempre. Finora la platea l'ha bevuta. La ripete. Da sciocchi attendersi self-restraint. Ha in mano il controllo pieno di buona parte dell'informazione, è naturale che voglia adoperarla pro se e senza risparmio, soprattutto quando i tempi per lui si fanno difficili. "Invece di governare, sono qui..." dice e, con autocompianto posticcio, fa spallucce da uomo rassegnato, dimentico che imprese e sindacati, docenti e studenti, Comuni e Regioni, Nord e Sud, Europa e Africa, hanno in mano la misura dell'inettitudine della sua leadership e, chiara, la sincope del suo governo. Parla, parla, parla senza una pausa. "Sappiamo che questi sono processi mediatici. Non riesco a capire come un presidente del Consiglio si possa trovare davanti a una situazione come questa con accuse che sono infondate e demenziali. Solo invenzioni dei pubblici ministeri staccate completamente dalla realtà". Implacabilmente, ogni frase è un luogo comune. Mai un fatto, mai un evento, mai un argomento. Soltanto ideologia. Se ne avesse - di argomenti - discuterebbe nel processo perché il processo nasce per quello: macchina retrospettiva, stabilisce se qualcosa è avvenuto e chi l'abbia causato; accusa e difesa formulano delle ipotesi; il giudice accoglie la più probabile, secondo i canoni. Quale migliore opportunità di mostrare i suoi motivi, di illustrare finalmente le ragioni insuperabili che dice di avere in tasca. Niente, non ci pensa. Lui non ci casca: i fatti gli sono sempre scomodi. Il massetere ora sembra allentato. Il volto mostra ira, quasi un tenace furore quando la logorrea farfallina cede all'umore, alle viscere. Sembra che si afferri il vero volto del Cavaliere, sempre accortamente nascosto nella perfomance mediatica. Condanna e ghigna perché il canovaccio che gli hanno preparato (o che si è preparato) ora affronta non più il suo processo, ma chi lo ha promosso. "La magistratura oggi è come un'arma di lotta politica e per questo bisogna riformare la giustizia". Gli chiedono: riforma della giustizia o riforma del pubblico ministero, presidente? Niente. Finge di non sentire e tira innanzi con il sermone. Non ammette interlocutori né domande né intoppi al monologo. Ribadisce la lezione imparata (a memoria): "La riforma che il governo intende approvare non sarà una riforma punitiva, ma servirà per riportare la magistratura a quelle che deve essere, non quello che è oggi: ripeto, è un'arma di lotta politica e questo non funziona". Prende fiato per un attimo. Si riesce a mettergli lì tra i piedi il "caso Ruby". Il comizio ha ingrassato il suo Io e il sentimento narcisistico d'onnipotenza si divora ogni prudenza confermando una regola: quando gli capita di affrontare la realtà e di parlare di fatti si confonde, si contraddice, reinventa senza cautela, si autoaffonda. Offre un'altra versione (l'ennesima bugia, prima o poi bisognerà dare conto dell'intero repertorio) di come andarono le cose in questura nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010. "Io ho chiesto un'informazione con la mia solita cortesia, preoccupato che la situazione potesse dar luogo a un incidente diplomatico. Mi hanno detto che non era egiziana ed è caduto tutto". È spudorato. Sa (e ora lo sanno tutti) che quella notte non ci fu soltanto una telefonata, ma ripetute telefonate. Voleva che liberassero la sua concubina; la disse "nipote di Murabak"; pretese che la consegnassero a una sua incaricata (Nicole Minetti). Il capo del governo lo ha ribadito alla Camera reclamando il conflitto di attribuzione per sottrarre il processo a Milano: "Ho evitato una crisi internazionale, credevo che fosse la nipote di Mubarak". Parlamentari servili gli hanno creduto e ora il malaccorto lascia tutti di princisbecco: quella notte ho saputo che non poteva essere la nipote di Mubarak perché mi dissero che era marocchina! L'Imbroglione cucina un'altra frittata quando racconta l'aiuto offerto a Ruby. "L'ho aiutata e le ho dato perfino la chance di entrare con una sua amica in un centro estetico. Doveva fornire un laser antidepilatorio. Costava, se ricordo bene, 45 mila euro anche se Ruby dice che gli euro erano 60 mila. Così ho dato l'incarico di darle questi soldi per sottrarla a qualunque necessità, per non costringerla alla prostituzione, ma per portarla nelle direzione contraria". Berlusconi non si rende conto che le sue parole confermano quale fosse l'esclusiva fonte di reddito di Ruby, prima e dopo gli incontri di Arcore. Lo portano via prima che faccia altri danni a se stesso e alle troppe frottole che ha distribuito negli ultimi tre mesi. Conclusa l'udienza, si rimette al lavoro. No, al processo non pensa. Pensa di nuovo ai giornalisti. Affida loro un'altra omelia. "Questa mattina ho sentito dei testi e ne vengo via con l'impressione abbastanza drammatica del tempo che si perde su delle accuse che sono frutto soltanto della fantasia di certi pubblici ministeri. Incredibili questi processi, che sono soltanto processi mediatici fatti per buttare fango sull'avversario politico, che si considera un nemico da eliminare perché è l'unico ostacolo alla sinistra per tornare al potere". Liquida l'accusa con un farfuglio che non ha né capo né coda. "L'accusa è che io sarei stato socio occulto di un'azienda che vendeva diritti a Mediaset. Questa azienda si è appurato che ha pagato al capoufficio acquisti di Mediaset 21 milioni di cresta per farseli comperare. I diritti venduti in un anno sono stati 30 milioni di dollari. L'accusa è che io sarei stato al 50% di questa azienda. Allora, io sarei stato così stupido da pagare la metà di 21 milioni al capoufficio acquisti della mia azienda a cui avrei potuto fare una telefonata dicendogli: "Entro stasera alle 6 devi firmare questo contratto di acquisto". Ma questa è solo la prima delle cose paradossali. La seconda è che questo capoufficio acquisti era lì in una struttura che comperava diritti per mille milioni di dollari all'anno, quindi quei ventuno milioni li pigliava per trenta milioni di acquisti all'anno per diversi anni. Qual è quell'imprenditore che è così folle che può tenere per più anni a capo dell'ufficio acquisti della sua azienda un corrotto che acquista dei diritti per la sua azienda e si fa pagare una cresta a danno dell'azienda? Non c'è imprenditore al mondo che possa fare una cosa del genere. Un signore che conosco aveva saputo che un suo parente faceva la cresta dell'acquisto delle carote e lo ha licenziato". Alzi la mano chi ci ha capito qualcosa. In ogni caso, le sue ragioni avrebbe potuto spiegarle ai giudici nel processo. Erano lì. Lui era lì. La cosa si poteva combinare con il comodo di tutti. No, il Cavaliere ostinatamente muto (e assopito) durante le udienze, diventa un incontenibile parolaio fuori del processo, a udienza chiusa. Quel che conta per lui è lo show. Il modello è la fiera. A Berlusconi bisogna dare soltanto il palco e un pubblico adorante. Se il pubblico non lo è, Berlusconi tracolla, ondeggia. Il potere dell'adulazione è incalcolabile e rende cieca anche la persona più intelligente. Abituato alla riverenza e alla corvée servile offerta dai coatti che attendono un premio, un onore, una poltrona, lo scuote anche soltanto un'interruzione. Il suo Io ipertrofico non ammette interlocutori né - naturalmente - una domanda. Porgliela rivela il suo stile (le style c'est l'homme). Le parole che butta come una fontana si fanno viscerali fino all'invettiva e al ringhio. Una domanda (lo portano via di nuovo e di peso) lo fa ancora scappare verso luoghi più protetti: in strada, davanti a un paio di centinaia figuranti. Ora tra gli applausi, può celebrare, in un delirio narcisistico, se stesso, le sue virtù, la sua vita e aizzare i campioni della libertà contro la magistratura "nemica dell'Italia". L'ultimo atto della giornata sarebbe triste e grottesco se non facesse paura. Quest'uomo, prigioniero delle sue ossessioni, inabile a dire la verità, sempre più chiaramente vuole spingere il Paese in un conflitto fatale soltanto per salvare se stesso". (Giuseppe D'Avanzo)

domenica 10 aprile 2011

Gli ipocriti


Nessuno si è fatto avanti per solidarizzare con la mia iniziativa per aiutare la Costa d'Avorio. Nemmeno un centesimo, che non siano i pochi che ho, è arrivato per poterlo trasferire nel Paese africano. A volte non capisco come una persona ragiona o sia obnubilata dalla tv e dalle informazioni farlocche che riceviamo 24 ore su 24 nel nostro cervello: se si vedono iniziative mediatiche, con volti celebri (vedi i ridicoli Angelina Jolie e Brad Pitt con i figli adottati al collo, George Clooney con la malaria, Sofia Loren madrina Unicef e quant'altro, che non stanno facendo altro che continuare a farsi delal pubblicità senza smuovere veramente alcunché) o ong sconosciute, o organizzazioni cattoliche, si è pronti a dare. Anche se nessuno sa dove esattamente questi soldi vadano a finire e chi ne ottenga veramente beneficio. Ma se a proporlo è uno che si conosce personalmente, un mister nessuno perché magari non appare sui media, allora si gira la testa dall'altra parte. Le donazioni sono spontanee e ognuno è libero di fare dei suoi soldi quello che vuole, ma forse sarebbe anche l'ora di svegliarsi e sapere veramente dove si può aiutare e dove invece si sta ingrassando qualcuno.

Su questo aspetto, nella mia esperienza in Costa d'Avorio, posso affermare: i missionari sono una goccia nel mare che in quelal realtà non conta niente e che operano in un contesto di cui pochi ne conoscono i veri contorni, di ong ce ne sono pochissime che funzionano e la maggior parte servono ad ingrassare qualche locale che ha trovato così una forma di sopravvivenza o addirittura di potere rispetto alla normale popolazione, le grandi organizzazioni (unicef, onu, fao e via dicendo) sprecano in stipendi e ville lussuose quello che dovrebbero devolvere alla popolazione, le adozioni a distanza non sempre funzionano e non si sa esattamente con quali criteri vengono gestite.

Insomma, per quel che ne so e ho visto, qui da noi si raccontano un sacco di frottole sul continente africano, compresi i grandi media mordi e fuggi con i loro resoconti tutti uguali (vedi Darfur, Biafra, bambini con le mosche sugli occhi e altri immagini similari che offenderebbero anche l'ultimo della Terra), e che se si vuol fare qualcosa, e non solo scaricarsi la coscienza, bisogna conoscere e sapere cosa si sta esattamente facendo.

Evitare poi le ipocrisie: non si può adottare un bambino povero a distanza e poi prendere a calci nel culo il primo bengalese che ti lava i vetri al semaforo... . Tanto meglio sarebbe aiutare il bengalese o il barbone della stazione Termini, portarselo a casa, aiutarlo ad inserirsi e via discorrendo. Questo sarebbe veramente aiutare qualcuno, non la caritas pelosa di molti cattolici che poi, magari in Africa, vivono situazioni di privilegio grazie proprio alle nostre donazioni. O di parrocchiane in Italia che poi schifano il primo ragazzo di colore che tenta di vendergli i calzini. Forse non lo sapete, ma è suo figlio quello che dite di adottare a distanza quando fate dei bei discorsi in chiesa e donate vestiti che non mettete più. O quelli che pagano una prostituta bambina all'Eur delle favelas brasiliane per poi prendersi cura dei piccoli mulatti sudamericani. O dire 'fora dalle ball' e far perire nel Mediterraneo centinaia di persone grazie a leggi razziste e ad ingressi vietati e poi a quelle stesse persone dire di aiutarle accogliendole nelle mense dei senza tetto o lasciandole in strutture lager.

Insomma, il prosciutto sugli occhi va bene, ma ogni tanto bisogna anche saperselo levare.

venerdì 8 aprile 2011

In prigione Gbagbo. Il presidente Ouattara, vincitore delle ultime elezioni, si insedia in Costa d'Avorio. Si va verso la normalizzazione

"Il presidente uscente della Costa D'Avorio Laurent Gbagbo è stato arrestato dalle forze del capo di stato Alassane Ouattara e condotto, insieme alla moglie Simone, al Golf Hotel, quartier generale del presidente riconosciuto dalla comunità internazionale. Lo ha precisato l'ambasciatore francese ad Abidjan, Jean-Marc Simon, smentendo che l'arresto sia stato eseguito dalle forze speciali francesi, come riferito in precedenza da diversi media.Diversi tank sono entrati oggi nella residenza di Gbagbo ad Abijdan, capitale economica del Paese, dove da giorni si era asserragliato. I numerosi tentativi di arrivare ad un accordo per la sua resa, nelle ultime settimane, non sono andati a buon fine. Il ministero della difesa francese, citato da Le Monde, ha precisato che le forze di Ouattara hanno operato l'arresto con il sostegno della missione Onu e di quella francese Licorne. Mezzi blindati francesi e Onu erano infatti stati dispiegati lungo la strada che conduce alla residenza di Gbagbo, "parzialmente distrutta" dai bombardamenti lanciati la scorsa notte dalle forze Onu e francesi. Da Parigi, la presidenza francese aveva sottolineato in precedenza che "l'intervento militare è stato richiesto dall'Onu per proteggere la popolazione" e che la missione della Francia "non è quella di deporre Gbagbo per via militare". Il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ha confermato di aver chiesto l'attacco e ha ribadito le accuse del palazzo di vetro nei confronti di Gbagbo, che la scorsa settimana "ha riunito le sue forze e ha dispiegato nuovamente l'artiglieria pesante".Gli scontri fra le forze fedeli al leader uscente e quelle di Alassane Ouattara, vincitore delle ultime elezioni presidenziali e sostenuto dalla comunità internazionale, ma considerato da Gbagbo un usurpatore, hanno provocato centinaia di vittime nel Paese e una situazione umanitaria tragica, come hanno denunciato diverse organizzazioni umanitarie". (La Repubblica-11-4-2011)) "Dopo una lunga resistenza contro l’assedio delle Forze repubblicane supportate dal deciso intervento della Francia e delle Nazioni Unite, Laurent Gbagbo si è arreso ai soldati francesi, che lo hanno consegnato al presidente riconosciuto dalla comunità internazionale Alassane Ouattara. La situazione era precipitata dopo che Gbagbo aveva rifiutato la proposta di un governo di unità nazionale formulata dall’Unione Africana: a questo punto le forze di Quattara hanno lanciato un’intensa offensiva militare che si è rapidamente sviluppata dal nord verso il sud del paese, fino a raggiungere agevolmente Abidjan. Nella capitale economica c'è stata un’intensa lotta armata, terminata solo grazie all’intervento delle truppe della missione Onuci e dal decisivo contributo del contingente francese Liocorne, presente in Costa d’Avorio sin dal 2002. L’uso di “ogni mezzo necessario” alla protezione dei civili era stato autorizzato dalla risoluzione 1975 delle Nazioni Unite, presentata congiuntamente da Francia e Nigeria e approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza il 30 marzo. Contemporaneamente Parigi rafforzava la propria missione richiamando 450 soldati di stazza in Gabon e prendendo possesso dell’aereoporto di Abidjan. L’intervento delle forze internazionali si è materializzato nella serata di lunedì 3 aprile, quando il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha chiesto e ottenuto il supporto francese per attaccare e distruggere l’artiglieria pesante in mano a Gbagbo. Gli elicotteri della Liocorne hanno inoltre colpito le antenne della Rti, la rete televisiva attraverso cui il regime aveva avviato un’intensa campagna mediatica contro i propri avversari. Ban Ki-Moon ha subito precisato che le Nazioni Unite non sono parte del conflitto e che le azioni intraprese hanno avuto il solo scopo di prevenire ulteriori ritorsioni contro la popolazione. Tuttavia la Russia ha parlato di ingerenza in un conflitto interno, sollevando dubbi sul rispetto della neutralità prevista dal mandato Onu. Anche il presidente di turno dell’Unione Africana, Teodoro Obiang, capo di Stato della Guinea Equatoriale, ha preso le distanze dall’intervento armato, mentre le reazioni dei singoli paesi africani hanno rispecchiato le posizioni assunte prima che la situazione precipitasse: Sudafrica e Angola hanno espresso perplessità sulle modalità di intervento; la Comunità Economica dell’Africa Occidentale con in testa la Nigeria, favorevole all’intervento fin dall’inizio della crisi, ha invece approvato gli attacchi. L’opportunità di colpire le basi militari dalle quali Gbagbo non aveva esitato a lanciare razzi contro la popolazione durante gli ultimi episodi di repressione non è in discussione. Con l’oscuramento della rete televisiva e gli attacchi diretti contro residenza presidenziale, l’Onuci e la Francia si sono però spinti oltre il solo obiettivo di proteggere i civili, decidendo di fatto le sorti del conflitto. Già subito dopo la distruzione del proprio potenziale militare e il conseguente assedio da parte delle Forze repubblicane di Quattara, Gbagbo, barricato nel suo bunker, aveva cominciato a negoziare la resa. Tuttavia le trattative erano state interrotte di fronte al rifiuto del presidente uscente di riconoscere per iscritto la vittoria elettorale di Ouattara. Nella serata di ieri (domenica 10 aprile) gli elicotteri internazionali si sono quindi nuovamente alzati in volo per colpire la residenza presidenziale e distruggere ciò che restava dell’artiglieria pesante di Gbagbo. I raid sono andati avanti per tutta la notte causando seri danni alla residenza presidenziale, tanto da far temere che il suo inquilino fosse rimasto ucciso. Quando però nel corso della mattinata di lunedì si sono diffuse le notizie dell’avanzata dei soldati francesi verso la residenza di Gbagbo, i contorni della vicenda hanno cominciato a schiarirsi: dopo quattro mesi di inutili tentativi di mediazione il presidente sconfitto alle elezioni è stato arrestato e consegnato alle Forze repubblicane di Ouattara. Nel frattempo un mercantile sudafricano sarebbe attraccato nel porto di Abidjan con il compito di ripartire solo con Gbagbo a bordo. La comunità internazionale ha già chiesto a Ouattara di impegnarsi nell’opera di ricostruzione e riconciliazione nazionale per la quale sarà indispensabile formare un governo di unità nazionale, mentre l’Unione Europea ha accolto la richiesta di ritirare le sanzioni economiche formulata dal nuovo presidente. Il futuro del paese appare tuttavia pieno di incognite. Un primo elemento di fragilità è rappresentato dalle accuse di violazioni del diritto internazionale umanitario rivolte contro alcune frange delle milizie di Ouattara, sospettate di aver massacrato centinaia di persone durante la presa della città occidentale di Duekoue. Le responsabilità sono ancora tutte da accertare, ma qualora fosse dimostrato che le truppe del presidente riconosciuto dalla comunità internazionale si sono macchiate di crimini di guerra, questo costituirebbe un inizio non certo promettente per il nuovo esecutivo. Ouattara dovrà prendere le distanze dalle componenti più violente del proprio schieramento, affidando a una commissione d’inchiesta il compito di accertare i fatti. Nello stesso tempo sarà necessario promuovere una politica di riconciliazione nei confronti di quanti hanno finora sostenuto Gbagbo, inclusi coloro che hanno partecipato alle azioni armate. Fondamentale sarà la fase di disarmo dei diversi gruppi armati irregolari o il loro ricollocamento nelle file del nuovo esercito nazionale. Tali operazioni saranno probabilmente coordinate dai caschi blu dell’Onuci, il cui mandato, in scadenza il prossimo 30 giugno, dovrà necessariamente essere prolungato. Inoltre il ruolo decisivo giocato dall’intervento francese potrebbe ritorcersi contro lo stesso Ouattara, minandone la legittimità agli occhi di una popolazione che rimane profondamente divisa. Non tutti coloro che si sono ribellati contro Gbagbo possono essere infatti automaticamente considerati sostenitori di Quattara. Le stesse fondamenta della vittoria elettorale di quest'ultimo ottenuta a novembre appaiono tutt’altro che solide: va ricordato infatti che al primo turno Gbagbo aveva raggiunto la maggioranza relativa con il 38% dei voti, mentre Ouattara si era fermato al 32%; il terzo candidato, l’ex capo di Stato Henri Konan Bédié, aveva raccolto il 25% delle preferenze. Solo grazie all’inaspettata alleanza con Bédié Ouattara è riuscito a superare Gbagbo al secondo turno, raggiungendo il 54% dei voti. Inoltre ben il 95% dei voti raccolti dal neopresidente al primo turno era concentrato nelle regioni settentrionali. Un dato che rivela la persistenza delle divisioni territoriali riconducibili all’incendiaria politica dell’ivoirité, per la quale veniva considerato cittadino ivoriano solo chi poteva vantare entrambi i genitori nati in Costa d’Avorio. L’ivoirité si è sviluppata negli anni Novanta sotto la presidenza Bédié e per ragioni socio-economiche era discriminatoria principalmente nei confronti della popolazione del nord. Tale politica ha condotto il paese alla guerra civile nel 2002, oltre ad aver impedito a Ouattara, originario del Burkina Faso, di partecipare alle elezioni presidenziali del 2000. Sarà quindi fondamentale che il nuovo esecutivo coinvolga esponenti di entrambi gli schieramenti, promuovendo una convinta politica di riconciliazione nazionale. La ricostruzione del paese dovrà essere concretamente sostenuta da tutta la comunità internazionale. Diversamente il rischio che l’unica soluzione alla crisi possa essere rappresentata dal ripetersi di quanto successo in Sudan, con la separazione del paese in due nuovi Stati indipendenti, appare concreto. Qualora anche i confini della Costa d’Avorio dovessero saltare, il diffuso timore che il processo di divisione sudanese possa avviare un effetto domino capace di sconvolgere l’intero continente africano comincerebbe pericolosamente a materializzarsi". (da Limes) Il Comitato per la pace in Costa d'Avorio sta raccogliendo fondi e cercando di sensibilizzare gli organismi internazionali affinché cessi la guerra civile nel Paese e tutto ritorni nella normalità. Chi vuole partecipare può farsi avanti scrivendo a questo sito e versando liberamente sul conto corrente postale 40843039 (iban it10m0760103200000040843039), intestato a Brindisi Antonio, causale 'Comitato per la pace in Costa d'Avorio'. Noi poi gireremo questi soldi alle persone che conosciamo e che sappiamo essere in difficoltà. Possiamo anche fare da tramite per inviare somme di denaro, per avere o tenere contatti e per darvi informazioni su quello che sta realmente accadendo.